VINCERANNO ANCORA I RICCHI?


Grazie a tutti voi per la numerosa presenza e grazie a Macerata Racconta, rassegna di libri e editoria giunta alla XV edizione. Un ringraziamento particolare va a Riccardo Staglianò per aver accettato l’invito della Fondazione Belli a presentare qui a Macerata il suo ultimo libro “Hanno vinto i ricchi. Cronache da una lotta di classe” (Einaudi 2024).

Per chi non la conoscesse la Fondazione Giuseppe Belli è una fondazione di cultura politica che gestisce il patrimonio del Pci, Pds, Ds della provincia di Macerata e che - insieme alle altre fondazioni diffuse in tutta Italia - fa parte della Associazione nazionale Enrico Berlinguer, con l’obiettivo di diffondere e rinnovare la cultura politica della sinistra italiana.

Sono qui in sala alcuni rappresentanti della Fondazione, il presidente del Consiglio di amministrazione Luciano Ramadori e i componenti Massimo Lanzavecchia e Cataldo Modesti. Essendo la prima iniziativa pubblica che la Fondazione organizza dopo il lutto che l’ha colpita, voglio ricordare la persona di Renato Pasqualetti che non è più tra noi e che molto ha dato alla Fondazione rivestendo il ruolo di Presidente del Consiglio di amministrazione e di componente del Comitato d’indirizzo.

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L’autore del libro che presentiamo, Riccardo Staglianò, è scrittore e giornalista, una delle firme più autorevoli del quotidiano “La Repubblica” del quale cura in particolare l’inserto “Il Venerdì”. Del suo curriculum professionale mi piace ricordare la collaborazione con “Reset”, periodico fondato e diretto da Giancarlo Bosetti, una delle riviste insieme a “Micromega”, “Aut Aut” e altre, che hanno accompagnato la nostra formazione giovanile. Dal 2016 l’autore produce un libro ogni due anni, per cui il prossimo anno siamo in attesa di una nuova uscita. Di solito ha affrontato i temi delle nuove tecnologie e del loro impatto sociale, fino al penultimo libro “Giagacapitalisti” (Einaudi 2022) dove si è occupato della concentrazione di ricchezza e potere in capo ad una oligarchia globale, quella dei “broligarchi” come vengono chiamati oggi. Nella sua ultima fatica, invece, ricerca le ragioni della sorprendente dinamica dei salari italiani che nell’arco di trent’anni, caso unico tra i Paesi Ocse, sono diminuiti del 3% invece di aumentare.

Il libro si muove su tre registi: il primo, che fa da sfondo e da sottofondo all’intera narrazione, riguarda l’avanzare dopo i “Trenta gloriosi” del programma della rivoluzione neoconservatrice o neoliberista, inaugurata da Thatcher e Reagan e che dagli anni Ottanta fino alla grande crisi del 2008-2013 ha perseguito in maniera scientifica i suoi obiettivi, il primo dei quali è stato quello di colpire il lavoro salariato, la classe operaia. Il secondo registro riguarda il focus sull’Italia, ovvero come questo programma neoliberista è stato attuato in un contesto nazionale fatto di ritardi, debolezze, corporativismi e furbizie. In questo quadro vengono analizzati i temi dei salari e della produttività, del rapporto tra capitale e lavoro, dei contratti e del sindacato, delle tasse e del fisco, del rapporto tra ricchezza e povertà. Il terzo registro è quello della cronaca; nei due “Intermezzi” del libro, Staglianò ci offre lo spaccato di chi sono i ricchi e chi sono i poveri oggi, quasi facendoci toccare con mano situazioni umane che suscitano opposti sentimenti.

Il tutto viene narrato in maniera agile e comprensibile, nonostante la mole di dati riportata, e con uno stile serrato tipico del giornalista di qualità.

Siccome questa edizione di Macerata Racconta ha come tema “le illusioni”, possiamo dire che nel caso del nostro libro l’illusione non è tanto rappresentata dalla lotta di classe, che è esistita ed esiste tuttora, seppure atomizzata, dispersa e frammentata. Pensiamo, ad esempio, alla sua riattualizzazione in “geoclassi”, termine coniato da T. Piketty e G. Cagè ne “Una storia del conflitto politico” (La Nave di Teseo 2024) per indicare il fatto che non basta la discriminante sociale, ma ci vuole anche quella territoriale tra città e campagna (o tra aree urbane e rurali, o tra città polo e aree interne) per comprendere i comportamenti elettorali. Il movimento per l’uguaglianza, infatti, non si è estinto, continua ad esistere e ad operare come un processo, come ci ha ricordato sempre Piketty nell’intervista rilasciata a Staglianò e pubblicata ne “Il Venerdì” di ieri Primo Maggio. Tuttavia, guardando all’oggi, è proprio l’idea di un mondo più giusto a rappresentare un’illusione e il disincanto presente di chi in quella idea ha creduto si alimenta pessimisticamente della consapevolezza che “nella lunga distanza saremo tutti morti”, come diceva Keynes.

Tale disincanto, che in molti diventa sfiducia, rancore, risentimento e che sfocia nell'astensionismo, ha una ragione molto concreta; essa sta nel fatto che, se il neoliberismo ha tradito le sue promesse, come ha dimostrato l’esplosione della grande crisi degli anni 2008-2013, non si affaccia ancora una proposta politica alternativa in cui poter credere e che ci faccia uscire in avanti dalla crisi del neoliberismo. L’operaio di Detroit è il più acceso fan di Donald Trump e potremmo trovare in Italia migliaia di esempi analoghi; molti poveri si sentono dalla parte dei vincitori ricchi e si riconoscono in essi, segno che la lotta di classe è esistita, ma è stata persa e la sconfitta è culturale, cioè profonda.

Ecco allora il punto politico del libro, che è quel che più ci interessa affrontare: come è stato possibile? Perché non ci si ribella allo stato di cose presente da parte di chi ne è penalizzato, lavoratori dipendenti e precari, pensionati, giovani, donne, poveri? Perché la sinistra, che di questi ceti dovrebbe essere la voce, non è stata all’altezza, anzi a volte – come si ricorda nel libro – ha incentivato la tendenza di fondo, sostenendo in linea con il pensiero mainstream che “non c’è alternativa”?

Vengono subito in mente alcune giustificazioni di non poco conto. Il pensiero corre alla sconfitta storica, epocale, che la sinistra internazionale ha vissuto e al cono d’ombra che ne è scaturito, fatto di inevitabili subalternità e cocenti responsabilità. Colpisce sentire un “socialdemocratico” come Piketty asserire che il sistema sovietico ha avuto un effetto di oggettivo contenimento del capitalismo. Basterebbero le parole di Pietro Ingrao a offrire una esemplificazione lapidaria dell’accaduto: “Pensammo una torre, scavammo nella polvere”, oppure quelle riportate in “Memoria” (Ediesse 2017) in cui Ingrao descrive il compiersi di una sconfitta storica.

Tuttavia, poiché il dubbio, oserei dire il tarlo dell’uguaglianza non si ferma, è proprio nel momento più acuto della grande crisi, quando essa investe i debiti sovrani, che inizia ad affermarsi un pensiero critico della globalizzazione neoliberista. Penso all’elezione nel 2013 del Papa “venuto dalla fine del mondo” e che ci ha lasciato neppure due settimane fa e alla pubblicazione nello stesso anno dell’opera capolavoro di Thomas Piketty “Il Capitale del XXI secolo”. Papa Bergoglio ha rinnovato il pensiero sociale della Chiesa, in particolare con le encicliche “Laudato si’” (2015) e “Fratelli tutti” (2020); lo studioso francese ha rinnovato una prospettiva socialista democratica, offrendo una interpretazione critica del capitalismo globale.

Il tema delle disuguaglianze e della giustizia ambientale e sociale sono tornate al centro della riflessione. Deve far riflettere la forbice crescente tra redditi da lavoro e redditi da capitale, tra i rispettivi rendimenti e la distribuzione della ricchezza, che si concentra sempre più in poche mani, fino a raggiungere i livelli di epoche alle quali sono seguiti momenti tragici della storia mondiale. Ecco allora l’urgenza che un rinnovato pensiero critico sullo stato di cose presente diventi pensiero politico, proposta e azione mobilitante di larghe masse di cittadini per cambiare le cose. Ci sono segnali in tal senso, non dobbiamo disperare, ma occorre una maggiore consapevolezza e una tensione etica e politica più accesa, a livello nazionale, europeo e internazionale da parte di tutte le forze progressiste e democratiche.

Per restare all’Italia pensiamo soltanto alle tare di nascita del Partito Democratico nel 2007, l’anno precedente l’esplodere della grande crisi che ha cambiato tutto, con il mito delle primarie e il direttismo bipartitico e maggioritario; o del Movimento 5 stelle con il suo slogan fondativo “uno vale uno”, per non parlare del “vaffa”. Oggi dobbiamo registrare il riorientamento ideale e programmatico in corso in entrambe le maggiori forze progressiste italiane, che va incoraggiato mettendo da parte eccessivi tatticismi e investendo maggiormente in un progetto comune di governo e di cambiamento del Paese.

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Le questioni che il libro di Staglianò tratta sono state richiamate qualche giorno fa anche dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella in vista delle celebrazioni del Primo Maggio, quando ha ricordato l’urgenza della questione salariale nel nostro Paese, collegandola - tra l’altro – a quella demografica e della natalità, di cui tanto si parla. Il Presidente ha detto una cosa evidente, ma che non ho ancora sentito dalla bocca di un imprenditore, e cioè che, se gli stipendi non sono più dignitosi, ossia migliori, non c’è possibilità per i giovani di restare nel nostro Paese e di metter su famiglia. Eppoi, quelle stesse questioni saranno al centro dei referendum dell’8 e 9 giugno prossimi. Sarebbe una bella giornata se tutti i lavoratori si dessero finalmente appuntamento per dire forte e chiaro che c’è un problema e che bisogna affrontarlo, perché non sta scritto da nessuna parte che il mondo del lavoro debba essere una giungla e che diventare cittadini italiani debba essere così complicato.

Sarebbe una data di quelle che segnerebbero in positivo la storia del nostro Paese e le classi popolari hanno bisogno di tornare a fare la storia.

Ci sono altri nodi che avrei voluto affrontare, quello tra neoliberismo-nazionalismo-guerra e tra progressismo-Europa-pace, quello tra politica ed economia e tra governanti e governati; nodi essenziali da sciogliere, se vogliamo dissacrare gli ultimi idoli del neoliberismo e riaprire anche su questi temi un varco al pensiero critico progressista.

Ma mi fermo, indugiando un attimo soltanto sulle Marche e rivolgendomi all’autore del libro. Le Marche sono una regione manifatturiera, la più o forse una delle più artigiane d’Italia, ha subìto pesantemente gli effetti della grande crisi, a cui è seguito un sisma che ha prodotto molti danni. Le Marche, che prima della grande crisi viaggiavano sopra la media nazionale, si sono “medianizzate” e da qualche anno, secondo alcuni indici, si stanno “meridionalizzando”. Sono storicamente una regione di bassi salari, a cui si è aggiunta nel tempo una buona dose di precarietà (le assunzioni con contratti intermittenti sono al 19,4% contro una media nazionale del 9,9%); sono la regione del “piccolo è bello” con una impresa ogni 11 abitanti (anche se la morìa di piccole imprese da dieci anni non si arresta), troppi giovani laureati emigrano, la capacità di spesa delle famiglie è sotto la media nazionale, un marchigiano su 10 rinuncia a curarsi e non brilliamo nella prevenzione. Poi ci sono tante cose belle e positive, come il paesaggio e il buon cibo, che non sto qui a ricordare. Più in generale questi temi saranno oggetto delle prossime elezioni regionali e avremo tempo per parlarne.

Ma ciò mi consente di dire che quel “blocco sociale”, si sarebbe detto un tempo, fatto di lavoro dipendente e pensionati, minoritario nei numeri e resistente nelle giuste questioni che pone, non può non porsi il tema di come si conquistano ad una causa di cambiamento e di giustizia sociale soggetti e strati sociali diversi che a livello delle Marche, ma anche dell’Italia, sono essenziali per governare. E questo non può che essere l’oggetto di una proposta politica e programmatica ampia e coerente a cui è venuto il tempo che le forze progressiste di questo Paese si dedichino con intelligenza, passione, energia e anche con una certa urgenza.

In fondo a me pare che sia questa l’esigenza a cui ci richiama il libro di Riccardo Staglianò. Perché, se è vero che “hanno vinto i ricchi”, non è affatto detto che essi debbano vincere ancora.

 


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