OTTO ANNI DAL SISMA: SERVE UN’OPERAZIONE VERITA’ E UNA NUOVA POLITICA PER LE AREE INTERNE
Passati gli anniversari e le
(auto)celebrazioni ad otto anni dal sisma del 2016 è tempo di una operazione
verità. Non per fare polemica, ma per evitare di essere sommersi dalla
propaganda, e dunque per amore di verità.
Il quadro più generale sta
cambiando e per le aree interne e quelle del cratere sismico del centro Italia
le cose rischiano di peggiorare. Se nel 2016, in un’Europa che a fatica si
discostava dalle politiche di austherity,
il tema era la periferizzazione dell’Italia e ancor più delle sue aree interne
rispetto al cuore manifatturiero tedesco-orientale che trainava il continente,
oggi – come ci ha ricordato Mario Draghi presentando il suo rapporto sulla competitività
europea – è l’Europa tutta ad essere di fronte ad un bivio: o si rilancia o
declina.
Ho sentito dire in questi
giorni che l’Europa non ha una politica per la montagna: parzialmente vero, non
solo perché basterebbe ricordare le Convenzioni delle Alpi o dei Carpazi, ma
perché essa in realtà delega il tema delle aree non urbane, rurali, interne o
montane, alla politica di coesione, che in parte cospicua è nelle mani degli
Stati e delle Regioni. Sta a questi programmare e attuare una politica per la
montagna.
Ad esempio, con il sisma del
2016 l’Europa ha preso coscienza del tema delle catastrofi naturali ed ha
destinato circa 1,3 miliardi di euro all’emergenza del centro Italia, i cui
danni la Protezione civile nazionale stimò in prima battuta in 23 miliardi di
euro. Le stime successive riferite alla ricostruzione sono giunte a 27,2
miliardi. In quella occasione vi fu anche una decisione assunta dalle Regioni
italiane che per solidarietà con Marche, Umbria, Abruzzo e Lazio decisero di
sostenere il rilancio economico e sociale del cratere sismico destinando ad
esso una parte dei propri fondi strutturali (Fesr, Fse, Feasr), oltre 400
milioni. In questi anni, inoltre, è stato significativo anche l’intervento
della Banca Europea degli Investimenti (Bei) a favore della ricostruzione.
Per fare un altro esempio, nel
recente Accordo di Coesione firmato tra Governo e Regione Marche, che vale 532
milioni, al di là del finanziamento di alcuni spezzoni della Pedemontana nord e
di 14 milioni per la politica dei borghi non sono ravvisabili interventi che
possano far parlare di una vera e propria politica per le aree interne e
montane.
Se a questo quadro che si sta
complicando aggiungiamo la legge sull’Autonomia differenziata, per abrogare la
quale sono state raccolte le firme per il referendum, capite che l’orizzonte si
sta rabbuiando. Se i Livelli Essenziali delle Prestazioni vengono definiti
sulla base della spesa storica e la perequazione è affidata alle Regioni, che
dovrebbero riequilibrare al proprio interno le aree più forti e quelle più
deboli, la marginalizzazione delle aree interne proseguirà inesorabile. E il
centro Italia sarà la parte del Paese che pagherà il prezzo più alto, stretto com’è
tra la “secessione dei ricchi” e la rivolta del Sud.
Quando nel 2020 ho parlato di
“Post Regione”, tra i vari motivi, uno riguardava proprio l’aver mancato – dopo
50 anni dalla costituzione delle Regioni – l’obiettivo del riequilibrio
territoriale, uno dei problemi per affrontare il quale era nato l’ente
regionale e rispetto a cui l’avvento del sisma determinava una rottura profonda
degli equilibri regionali. La cesura segnata dagli effetti della grande crisi e
della pandemia, sul sistema produttivo e sul sistema di welfare, oltre al
sisma, sono stati i fattori che hanno determinato la vittoria della destra in
Regione, l’unica forza che non aveva mai governato. È chiaro come alla base
della doppia o tripla ricostruzione ve n’è essenzialmente una da realizzare, la
ricostruzione politica, l’idea cioè di un progetto regionalista nuovo, che non deve
smarrire la vicenda storica regionale, che ha visto per 25 anni protagonisti i
partiti del centro e della sinistra fondatori della Regione e per altri 25 anni
le forze progressiste e di centrosinistra, ma che deve saperla profondamente
rinnovare.
Oggi, giunti quasi al termine
della legislatura, possiamo dire che la destra non è stata la risposta alle
questioni di fondo emerse, che ha potuto facilmente cavalcare, ma che
altrettanto non ha saputo affrontare e governare. In più essa ha dimostrato di
avere una cultura minoritaria, ad esempio quando sentiamo Il Presidente della Regione
dire che i 30 anni che lo hanno preceduto sono stati un fallimento di cui la
sinistra sarebbe la responsabile. Una cultura regressiva, come quando parlano
di borghi come luoghi di un’identità originaria, tra l’estetico e il
nostalgico. Un deficit di cultura istituzionale, quando parlano di filiera
istituzionale intendendola come filiera di partito o - peggio - di fedeltà.
Europa, Autonomia differenziata,
la terza questione per le aree interne è la Demografia. Il tema è europeo e
nazionale, ma riguarda ancor più il Sud e le aree interne. La Banca d’Italia ha
già evidenziato la perdita di abitanti dell’area del cratere sismico, mentre la
CGIL nel recente convegno tenutosi qui a Camerino ha sottolineato come vi siano
circa 100 Comuni su 225 delle Marche, quelli fino a 2000 abitanti, che sono in
declino ed ha parlato di “collasso strutturale” per quelli fino a 1000 abitanti,
il che vuol dire l’impossibilità di invertire la rotta demografica. Di fronte a
questa situazione, ha senso parlare di rilancio dei borghi?
Oppure dobbiamo parlare di
come ridare un ruolo alle piccole e medie città dell’Appennino che storicamente
hanno svolto una funzione per i territori limitrofi e che dobbiamo dotare dei
servizi essenziali alla tenuta delle comunità? È questo il progetto della Città
Appenninica, che insieme alla Città Adriatica rappresenta il nerbo
dell’armatura urbana regionale. Quando il prof. Antonio Calafati denuncia
l’incomprensione del ruolo cruciale che Camerino ha per l’Area interna che lo
vede escluso, pone essenzialmente la questione di città pivot per i propri
territori (come anche Fabriano e Urbino) che non possono essere escluse dalla Strategia
nazionale delle Aree interne.
In Umbria questo errore è
stato prontamente sanato. Le città di Gubbio e Gualdo Tadino, che costituivano
un polo intercomunale, sono state reinserite nell’Area progetto perché era
insensato e sterile pensare di perimetrare un’area senza i centri urbani che
possono dare delle risposte ai territori limitrofi attraverso
quell’implementazione dei servizi a cui la Strategia mira.
Ciò è ancor più importante se
vogliamo provare a trattenere o ulteriormente incentivare quello spostamento di
persone verso la montagna che è avvenuto negli anni dal 2019 al 2023. Circa
100.000 nuovi abitanti sono andati a vivere in montagna. Un dato insufficiente
per invertire le tendenze demografiche, ma un fenomeno significativo se
pensiamo che è la prima volta che accade dal grande esodo degli anni Cinquanta
e Sessanta e che per quasi due terzi quelle persone sono italiani e solo per
poco più di un terzo immigrati. Un fenomeno che riguarda tutto il centro-nord e
di cui l’area del cratere sismico è la frontiera che distingue il saldo
positivo da quello negativo.
Non credo sia un caso che
questo fenomeno abbia la sua punta più avanzata nell’Appennino emiliano, dove
la politica della Regione di dotarsi di una strategia (STAMI – Strategie
territoriali per le Aree Montane e Interne) e di incentivare la residenza di
giovani coppie in montagna con contributi fino a 30.000 euro per l’acquisto e
la ristrutturazione della prima casa ha innescato azioni positive.
Aspettiamoci a breve dal
Parlamento una leggina sulla montagna, con misure deboli e divisiva, perché
costringerà gli Amministratori ad accapigliarsi su chi è montano e chi no.
Esattamente la diatriba da cui la SNAI ci aveva liberato. Aspettiamoci tanta
propaganda, anche se le risorse del FOSMIT (Fondo per lo Sviluppo delle
Montagne Italiane) le ha messe il Governo Draghi.
***
Veniamo ora alla ricostruzione
post-sisma, su cui pure la propaganda abbonda all’insegna del “cambio di passo”.
Vi è realmente un cambio di passo e su che cosa?
Bisognerà a tempo debito fare
anche una storia della ricostruzione del centro Italia e del contributo che i
diversi Commissari hanno dato in raccordo con i diversi Governi che si sono
succeduti. Ad esempio, se Vasco Errani è stato criticato per aver presuntamente
trasposto il modello di ricostruzione emiliano all’Appennino centrale, senza
soppesare adeguatamente le differenze, a lui va sicuramente riconosciuta la
generosità, questa sì tutta emiliana, dell’impianto welfaristico della gestione
dell’emergenza e della ricostruzione, comprensiva anche delle seconde case.
Così come bisognerà riconoscere la vacuità assoluta del Governo giallo-verde in
materia. Con la nomina di Giovanni Legnini e il supporto ricevuto dai Governi
Conte II e Draghi c’è stata la svolta. E rispetto a questa eredità dal 2023 ad
oggi non ci sono state significative novità, se non quelle di contributi e
importi di finanziamento aumentati per via delle note ragioni connesse
all’aumento dei costi delle materie prime, dell’energia e dell’inflazione.
Non vi sono state novità che abbiano
riguardato l’impianto generale della normativa, di cui Legnini ha messo le
fondamenta, né le progettualità di sviluppo. Per fare un esempio su Camerino:
l’impegno del Maxxi per la rifunzionalizzazione dell’ex-carcere o la nascita
dello Stric o il Recovery Art Project delle Casermette sono tutte iniziative
nate con Legnini. Persino l’impegno dei carcerati nei cantieri del sisma è
un’iniziativa del triennio fecondo 2020-2022. Successivamente ci si è dedicati
a dettagliare, ad attuare, cose importanti - per carità - ma non tali da poter
far parlare di un cambio di passo. Almeno in questo ambito.
Dal punto di vista delle
risorse per la ricostruzione dobbiamo registrare che le ultime stanziate sono i
6 miliardi decisi dal Governo Draghi con la legge di bilancio per il 2022. Poi
nulla, soltanto spostamenti di risorse dalla ricostruzione pubblica a quella
privata. Quindi, anche qui non c’è stato un reale cambio di passo.
Dal punto di vista delle
domande di ricostruzione presentate siamo a circa 32.000 su 50.000 attese. Ne
mancano all’appello 18.000, un dato che sembra minare alla radice l’idea di una
ricostruzione di successo. In compenso i tecnici hanno smesso di lamentarsi e
ai terremotati sono state ridotte le forme di sostegno.
Quando si declama il cambio di
passo si fa quasi sempre riferimento all’incremento delle erogazioni alle
imprese per l’avanzamento dei SAL. Un dato che non può che crescere rispetto ai
mesi precedenti per un motivo molto semplice e ovvio e cioè che progressivamente
si passa dai danni lievi di piccola entità a quelli più gravi di maggiore
importo e ciò non può che far lievitare la spesa. Dal punto di vista delle
pratiche, invece, come ha dimostrato il Gruppo consiliare regionale del Pd, il
numero è leggermente calato, ma anche questo è comprensibile, lavori più
complessi richiedono istruttorie più lunghe. Quindi, anche qui nessun cambio di
passo.
Per quanto riguarda, invece,
il Superbonus abbiamo vissuto settimane di incertezza e preoccupazione, quando
con un tratto di penna lo si è cancellato incuranti del dispositivo legislativo
che lo prevedeva per il cratere sismico fino al 2025, salvo poi ripristinarlo
con una dotazione finanziaria per il 2024 di 330 milioni. Non sappiamo nulla della
dotazione per il 2025, né se s’intende intervenire sull’adeguamento del costo
parametrico. Sono decisioni da prendere urgentemente e su cui fare chiarezza per
dare certezze ai terremotati e continuità alla ricostruzione.
Nessun cambio di passo è
registrabile, da ultimo, sul fronte della grande impresa pubblica, che si è
totalmente disimpegnata dall’obbligo morale di fare almeno un investimento in
area cratere, né su quello degli investimenti nazionali o esteri. Un cambio di
passo, questo, che sarebbe stato quanto mai apprezzabile.
Se guardiamo alle politiche di
rilancio e sviluppo del cratere, cioè alla seconda gamba della ricostruzione,
che per la prima volta nella storia delle ricostruzioni non è solo fisica, ma
anche economica e sociale, cioè, accompagnata da specifici piani e programmi di
investimento pubblico e pubblico-privato o di sostegno all’iniziativa privata,
occorre dire che la stagione feconda sopra richiamata è stata cruciale.
Il Contratto Istituzionale di
Sviluppo, il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, il Piano Nazionale
Complementare dentro cui è stato previsto il Programma Next Appennino di 1,780
milioni di euro per le Aree dei terremoti del 2009 e del 2016, sono tutti
strumenti nati con i Governi Conte II e Draghi e osteggiati dalla destra con il
voto contrario nel Parlamento europeo e in quello nazionale. È questo il motivo
di fondo per cui il cambio di passo non solo non c’è, ma non è credibile neppure
declamarlo.
Per le forze politiche che,
invece, quelle scelte le hanno fatte e sostenute a tutti i livelli è giunto il
momento di fare il punto sull’attuazione di quegli strumenti, perché la mia
sensazione è che il CIS sia impaludato, il PNRR avanzi lentamente (ricordate
quando l’attuale Presidente del Consiglio, appena insediata, criticava lo
scarso avanzamento della spesa prodotto dal Governo precedente?) e lo stesso
Programma Next Appennino registri difficoltà nella messa a terra di alcune
linee di intervento (es. Comunità energetiche, partenariati pubblico-privati,
etc.).
Aggiungiamoci che la Zona
Franca Urbana non è rifinanziata e non ci sono novità sulla decontribuzione, né
sulla Zona Economica Speciale, temi su cui la destra polemizzava quando era
all’opposizione della Regione o del Governo nazionale.
Unica misura prorogata nella
legge di bilancio per il 2025, oltre allo stato di emergenza, è la sospensione
dei mutui per i Comuni, ai quali tuttavia si riserva un trattamento
pesantissimo con tagli alla spesa nel quinquennio 2024-2028, a cui si aggiungono
il “contributo alla finanza pubblica” e il taglio degli investimenti nel quinquennio
2025-2029 e oltre. Stiamo parlando di decisioni che impatteranno per circa 6-7
miliardi di euro nei prossimi anni. Se, poi, aggiungiamo i tagli alle
Università per circa 800 milioni e il definanziamento della sanità con uno
stanziamento di appena 900 milioni sui 3-4 miliardi necessari, capite che la
prospettiva per le aree più deboli del Paese non è rosea.
Il dramma è che non si
finanzia la sanità per costruire percorsi fiscali di favore ad evasori e corporazioni
e per poter dare 260 euro all’anno a chi ne guadagna 40.000, come prevede la
riforma fiscale della destra.
***
Passiamo, ora, alle politiche
di sviluppo territoriale su cui la Regione ha un ruolo importante. La Strategia
nazionale delle Aree interne è stata accantonata, per non dire apertamente
avversata. Lo stesso vale a livello nazionale, nonostante siano state decise 56
nuove Aree progetto di cui 3 nelle Marche (Montefeltro, Alto Fermano e Alte
Valli del Potenza, Esino, Musone). Nel ciclo di programmazione 2021-2027 la
Regione ha messo le risorse minime per il finanziamento della Strategia che già
prevede altre tre Aree pilota attive, mentre nulla è stato previsto con il
Feasr. L’obbiettivo dell’estensione della Strategia a tutte le aree interne
della regione sarebbe perseguibile, ma non c’è riflessione, programmazione,
mobilitazione.
I Gruppi di Azione Locale
(Gal-Leader) sono stati anch’essi finanziati in maniera minima con il 6,1%
delle risorse della programmazione 2023-2027. Altre Regioni hanno fatto scelte
più coraggiose destinando anche oltre il 10%. Anche qui non c’è riflessione, né
consapevolezza, tanto meno un’idea della funzione che essi potrebbero svolgere
quali agenzie di sviluppo locale nelle zone rurali.
Le Green Communities, pur
finanziate dal PNRR e cofinanziabili dalle Regioni, non hanno ricevuto dalla
Regione Marche alcuna attenzione.
A queste tre strategie di
sviluppo territoriale, importanti per costruire progetti condivisi tra i
Comuni, puntando sul loro dialogo e lavoro comune, si è preferita la politica
dei borghi e dei campanili, condita dalla logica di filiera. Un’idea
velleitaria, regressiva e nostalgica che farà sperperare risorse pubbliche,
senza cambiare il destino delle aree interne.
Piuttosto che pronunciarsi a
favore dello lo ius scholae che
darebbe un forte messaggio di integrazione a chi - attratto da lavoro e case a
basso prezzo - potrebbe insediarsi nell’entroterra, si pensa di fare la
differenza con l’Irpef al 7% per i pensionati esteri facoltosi.
Una retrotopia che si rifiuta
di rispondere all’interrogativo che la comunità nazionale già ci sta ponendo e
che è il seguente: “Ma tutti gli investimenti che si stanno facendo nel cratere
convinceranno gli abitanti vecchi e nuovi di questo territorio a fare più
figli?”
Non esiste nessun progetto
sull’immigrazione funzionale, nessuna politica di investimento sui servizi
essenziali (scuola, sanità, mobilità) che premi e incentivi le forme di rete e
di collaborazione, il TPL è in grande difficoltà e ritardi si registrano nel
completamento Piano di connettività e accessibilità in fibra ottica.
***
Quanto finora detto pone alle
forze politiche di sinistra, democratiche, civiche e di progresso della regione
la necessità di una alternativa, ossia di avanzare un progetto e un programma
per le Marche che ambiziosamente possa aprire un nuovo ciclo di governo.
Abbiamo perso le elezioni
regionali del 2020 sui temi della Sanità e della Ricostruzione/Aree interne,
lasciando nelle mani della destra risorse e opportunità come non si erano mai
viste nella storia della Regione.
L’incontro di oggi, in quella
che considero ancora la mia casa, è l’occasione per tematizzare quale approccio
dobbiamo avere nel costruire l’alternativa. Sempre, ma tanto più quando
parliamo di questi temi, dobbiamo evitare le strumentalizzazioni. Le nostre
prese di posizione devono essere serie, circostanziate e alle critiche dobbiamo
sempre accompagnare delle proposte. Per riguadagnare credibilità bisogna
partire dal fatto che i problemi sono complessi e che c’è di mezzo la vita
delle persone. Non ce la caveremo dando semplicemente addosso a chi governa o
promettendo tutto a tutti, come hanno fatto loro.
Sulla sanità se noi siamo
ancora quelli degli “ospedali unici” è bene che passiamo direttamente la mano;
se siamo le vestali del Decreto Balduzzi, che risale al 2015 prima del Covid,
lasciamo perdere. Allo stesso modo, se le problematiche dell’entroterra vengono
soltanto agitate, pensando di guadagnare consenso per riportare di fatto in
auge un’idea della regione dove chi dà le carte è la “pentapoli Bizantina” (che
tra l’altro non governiamo più, ad eccezione di Pesaro), state tranquilli che
rivinceranno i Longobardi.
Le Marche sono una piccola
regione, ma complessa, e chi non si pone il problema del policentrismo, di come
unità e pluralità possono e debbono stare insieme, è meglio che non si occupi
di governarle, perché esse per natura rifuggono dalla concentrazione e dalla reductio
ad unum. Le Aree interne sono la prova del nove di questa necessaria attitudine
e capacità per il governo della regione, perché esse sono un altro modo di
nominare il policentrismo e ci obbligano a pensarlo.
Pensare e organizzare il
policentrismo, questo deve essere il nostro sforzo. In tutto l’entroterra
marchigiano non esiste un ospedale che sia effettivamente DEA di I° livello,
dove si possa nascere e non soltanto morire. Non c’è più una città che abbia le
caratteristiche di un Polo urbano con i servizi essenziali che questo comporta
in termini di scuola, sanità, mobilità, accessibilità. Dobbiamo pensare una
politica per le città e le aree interne della regione, in cui la rete delle
piccole città dell’entroterra costituiscano una rete funzionale, diversificata
e integrata a servizio delle comunità e dei territori, garantendo servizi e
opportunità per abitanti, residenti e turisti.
Dobbiamo riprendere in mano la
SNAI, rifinanziare i GAL, riequilibrare la spesa socio-sanitaria tra Città polo
e Aree interne, organizzare la sanità territoriale e di base, fare una legge
sulle cooperative di comunità e il Terzo Settore, mettere in campo una proposta
di riordino amministrativo, sostenere le reti, le associazioni, i sistemi
locali, le masse critiche che producono ricadute positive per chi vi aderisce,
investire sulle eccellenze del territorio come Unicam, esempio nazionale di
alta formazione nelle Aree interne, e sul distretto industriale fabrianese,
dalla cui tenuta dipende il destino di un entroterra che non si riduca
definitivamente a un insieme di borghi, senza servizi e senza futuro.
Sulla traiettoria fra Camerino
e Fabriano, fra l’Università delle Aree interne e il Distretto industriale
delle Aree interne, a breve collegati in meno di mezz’ora da una nuova arteria
viaria, si gioca molto del futuro di un asse pedemontano che unisce Urbino ad
Ascoli Piceno, che ha resistito alle intemperie di anni difficili e da cui
dipendono l’identità di un nuovo centrosinistra, oltre al futuro delle Marche.
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