LA QUESTIONE SALARIALE NON PUO’ ATTENDERE
La questione salariale italiana ha
recentemente conquistato l’attenzione dei media grazie a tre eventi: la morte
di Papa Francesco che al tema della dignità del lavoro ha dedicato buona parte
del rinnovato pensiero sociale della Chiesa, il discorso del Presidente della
Repubblica Sergio Mattarella a Latina in vista del Primo Maggio e i referendum
dell’8 e 9 giugno prossimi, dove i temi del lavoro saranno al centro del
pronunciamento degli elettori.
La stagnazione ormai trentennale
dei redditi da lavoro in Italia rappresenta un’anomalia assoluta tra le
economie avanzate. Dal 1991 al 2023 i salari sono diminuiti del 3,4%, mentre la
loro crescita media nei Paesi Ocse si attesta intorno al 30%. Persino la Grecia
ha fatto meglio di noi.
Giustificare questa eccezionalità
con il fattore della bassa produttività regge fino ad un certo punto. Non solo
perché - parafrasando Paolo Sylos Labini – l’aumento dei salari aiuterebbe la
crescita della produttività, mentre in Italia si è pensato da trent’anni a
questa parte che fosse vero il contrario, ma anche perché la produttività
italiana per ora lavorata dal 1990 al 2020 è cresciuta del 22,8% (dati Ocse).
Il punto è che di questa
crescita, sicuramente bassa e insufficiente, ma certificata, nulla è ricaduto
sui salari, che anzi sono indietreggiati. Quindi, ne ha giovato soltanto una
parte, in maniera diversificata, come è dimostrato dalla crescita dei tassi di
profitto che negli anni Settanta si aggiravano intorno all’1-2% dei ricavi e
che oggi, invece, viaggiano intorno al 7-8%.
Né per attenuare questa
situazione si possono soltanto indicare soluzioni prospettiche come l’evoluzione
del tessuto imprenditoriale verso produzioni a più alto valore aggiunto o
l’investimento in formazione e conoscenza o addirittura la ricostituzione della
grande impresa nel nostro Paese. Tutte misure certamente auspicabili e da
perseguire, ma – come diceva Keynes – “nella lunga distanza saremo tutti
morti”. E intanto?
Intanto un lavoratore su quattro
prende meno di 780 euro al mese (cifra individuata come soglia della povertà),
le donne lavoratrici prendono mediamente un 20% in meno dei colleghi uomini, il
part-time involontario la fa da padrone, crescono i lavoratori poveri (quelli
che hanno stipendi inferiori al 60% del reddito medio pro-capite), la giungla
dei contratti pirata si infittisce (sono circa 900), per non parlare del lavoro
nero e grigio, i contratti a tempo durano mediamente meno di 30 giorni, il
potere d’acquisto dei salari si è ridotto dell’8,7% rispetto al 2008 e la
stessa riduzione del cuneo fiscale non sta producendo i risultati tanto
auspicati. Potremo continuare a lungo, anche riferendoci alle Marche.
Nel discorso del Presidente
Mattarella, tra l’altro, c’è un passaggio in cui il livello inadeguato dei
salari viene messo in relazione con l’andamento demografico del nostro Paese e
con il tema molto sentito della natalità. Della serie: non possiamo lamentarci
se i giovani se ne vanno o non mettono su famiglia se gli stipendi continuano
ad essere quelli attuali. Finalmente qualcuno lo dice chiaro e forte!
Il punto è che il nostro Paese
dopo la fine della svalutazione competitiva non ha ricercato una via alta alla
competizione internazionale, fatta di innovazione, formazione e investimenti in
tecnologia e capitale umano, ma ha pensato di competere comprimendo i costi, a
partire dal costo del lavoro, e sfruttando in maniera parossistica le forme
contrattuali precarie. Non è azzardato sostenere che proprio queste scelte
siano una causa rilevante della bassa produttività, e non viceversa, se non
altro perché un costo del lavoro più alto costringerebbe a investire nelle “macchine”
(Ricardo) e favorirebbe un’estensione dei mercati (Smith).
Al problema dell’alta
disoccupazione si è risposto con la flessibilizzazione del mercato del lavoro, ma
se n’è abusato, così come vano si è dimostrato relegare il recupero della
produttività alla contrattazione di secondo livello, che è praticata da
pochissime aziende. Credo che il potere legislativo debba tornare a
interessarsi della contrattazione, così come vale ancora in diversi Paesi
europei e come sollecita a fare la stessa Unione europea quando indica la
necessità di un salario minimo legale.
Un discorso a parte meriterebbe
il fisco, che è rimasto progressivo solo per i redditi da lavoro, mentre è
divenuto proporzionale per quelli autonomi e da impresa, e addirittura regressivo
per i redditi da capitale e le rendite ereditarie. Favorendo un’anomala
concentrazione della ricchezza in poche mani. Per non parlare dell’evasione e
dell’elusione fiscale che ci colloca, questo sì, ai primi posti delle
classifiche europee.
Porre la questione salariale oggi
in Italia significa, dunque, rimettere al centro la riflessione su un paradigma
alternativo di sviluppo, fatto di una via alta e di respiro continentale, tanto
più all’indomani della nuova politica protezionistica degli Stati Uniti che ci
costringerà a curare maggiormente la domanda interna e a gestire le dinamiche
della minore crescita, dell’aumento dei prezzi e anche dei salari. Accelerando,
auspicabilmente, la costruzione del mercato unico, l’unità e l’autonomia
strategica dell’Europa.
L’appuntamento referendario
dell’8 e 9 giugno, infine, potrebbe diventare il momento in cui il frastagliato
mondo del lavoro italiano si ritrova per dire che esiste un problema e che va
affrontato, perché non è scritto da nessuna parte che il mondo del lavoro debba
essere una giungla e così complicato diventare cittadini italiani. Sarebbe una
bella sorpresa per tutti, una data storica, e i ceti popolari di questo Paese
hanno bisogno come il pane di tornare a fare la storia.
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