LA POST REGIONE, CINQUE ANNI DOPO. BILANCI E PROSPETTIVE PER LE MARCHE



Quando il 7 settembre del 2020 uscì “La Post Regione. Le Marche della doppia ricostruzione”, a pochi giorni dalle elezioni regionali (che si tennero il 20 settembre), era chiaro a chi militava nel campo del centrosinistra che si sarebbe andati incontro ad una pesante sconfitta.

La pubblicazione del libro rappresentò per certi versi la consegna di un testimone, una sorta di messaggio nella bottiglia affidata al mare degli eventi, e personalmente – si licet – la chiusura di un percorso a servizio dell’istituzione regionale.

Ma in quell’epilogo preannunciato erano conchiusi altri significati politici molto importanti. Si chiudeva un ciclo venticinquennale di governo delle forze progressiste e di centrosinistra, che attraverso le presidenze di Vito D’Ambrosio, Gian Mario Spacca e Luca Ceriscioli avevano interpretato la stagione della democrazia dell’alternanza a livello regionale, caratterizzata da un forte rinnovamento e protagonismo delle Regioni, andato via via progressivamente scemando.

Si chiudeva anche un ciclo più lungo, quello cinquantennale della fondazione delle Regioni a statuto ordinario, che aveva avuto una lunga gestazione e animato un forte dibattito e che ora, almeno nelle Marche, di fronte ad esiti prevedibili, avrebbe richiesto una riflessione di fondo, una sorta di bilancio critico, dal quale non potevano sottrarsi gli eredi delle tradizioni politiche e culturali dei grandi partiti di massa e antifascisti che si erano battuti per l’attuazione delle Regioni.

Il “Post” del titolo voleva significare, innanzitutto, le cesure rappresentate dal chiudersi di questi cicli e, contestualmente, il “dopo” che si apriva, un periodo di transizione verso un approdo tutto da costruire. Un nuovo tempo che avrebbe dovuto fare i conti, anche con un post-regionalismo - come è stato definito – cioè, con la necessaria presa d’atto che al rafforzamento delle Regioni, avvenuto attraverso riforme istituzionali e attribuzioni di nuove competenze, non era corrisposta una maggiore presa sulla realtà, anzi questa sembrava clamorosamente sfuggire alla presa.

Regioni indubbiamente più presenti nella vita delle comunità locali e delle persone, tanto che potremmo immaginare soltanto comunità più povere senza l’intervento regionale, ma altrettanto indubbiamente affette da eccessi di centralismo, burocraticismo e velleitarismo gestionale.

Da questo punto di vista l’attuazione dell’Autonomia differenziata, pur con i rilievi mossi dalla Consulta, rischia nel prossimo futuro di esasperare tali eccessi, oltre ad aumentare le dinamiche di polarizzazione inter e intraregionali e a vanificare ogni tentativo di perequazione tra nord e sud, aree urbane e zone rurali, costa e aree interne.

Infine, quel post regionalismo aveva delle ragioni più di fondo in un cambio d’epoca, in quel passaggio dallo spazio alla Rete - per dirla con Franco Farinelli – che produce la disintermediazione e la smaterializzazione, amplifica i flussi e riabilita i luoghi, e ci costringe ad avere contemporaneamente uno sguardo globale sui primi e un’attenzione quasi lenticolare sui secondi, cercando di comprendere impatti in tempo reale e tendenze di lungo periodo.

In quest’ottica, anche il ricorso a vicende storiche di respiro territoriale, riferite alle Marche o a porzioni di esse o persino a singole vicende, aveva nel libro il senso di una ricerca delle persistenze e analogie di lungo periodo, capaci - anche se soltanto in maniera suggestiva - di decifrare un presente confuso e aiutare l’immaginazione di una rigenerazione possibile.

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Tuttavia, il libro si presentava come una sorta di diario di legislatura, cinque anni molto complessi (2015-2020) durante i quali le Marche avevano vissuto una “tempesta perfetta”: dagli effetti perduranti della grande crisi, di cui i fallimenti della Antonio Merloni e di Banca Marche erano stati gli emblemi, al sisma del 2016/2017, fino alla pandemia del 2020. Eventi che avevano messo in discussione ambiti e settori basilari della società marchigiana: il sistema produttivo, il sistema urbano e il sistema del welfare.

La grande crisi metteva in discussione il nostro sistema produttivo: le Marche regione manifatturiera, la più artigiana d’Italia, la piccola dimensione, la propensione al risparmio, l’eredità dei distretti industriali e la nostra appartenenza alla Terza Italia.

Il sisma, epocale per ampiezza e profondità del danno, metteva in discussione il policentrismo marchigiano, le forme urbane in un territorio che rappresenta il 40% di quello regionale, 85 Comuni su 225 distribuiti su 4 province. Una realtà fatta per lo più di Comuni pulviscolo, segnata da forti differenze tra costa ed entroterra, tra nord e sud della regione, rispetto alla quale il sisma costituiva la rottura della relazione che - per quanto instabile e disuguale - la univa al resto della comunità regionale.

La pandemia, nell’annus horribilis del 2020, metteva in discussione il nostro sistema di welfare, la capacità di risposta della medicina del territorio, del sistema di emergenza, cura e riabilitazione, ponendo domande accantonate sul ruolo della prevenzione e dei presidi territoriali. Con l’organizzazione sanitaria e sociosanitaria entravano in discussione il livello e la qualità dei servizi fondamentali a garanzia della coesione sociale e della salute/vita dei cittadini.

Se pensiamo alle parole manifattura, credito, piccola impresa, distretti, Terza Italia, oppure paesaggio, riequilibrio territoriale, policentrismo, o ancora cura, salute, solidarietà, coesione sociale, è evidente come ad entrare in discussione fossero le Marche tutte, le Marche profonde, ciò che ha fatto di questa terra quella che è.

Le Marche delle virtù civiche, che viaggiavano prima della grande crisi sopra la media nazionale, stavano diventando le Marche “medianizzate”, assestate cioè sulla media del Paese. Ora il rischio era lo scivolamento, la loro “meridionalizzazione”, un processo che in questi ultimi anni è stato incoraggiato anche da alleanze interregionali che hanno volutamente guardato verso il centro-sud piuttosto che verso il centro-nord della penisola, senza peraltro capitalizzare un ruolo di leadership. Basterebbe citare la vicenda della istituzione della Zona economica speciale (ZES) da cui le Marche, pur essendo regione in transizione, sono rimaste escluse.

A questo quadro negli ultimi anni potremmo aggiungere il complicarsi del quadro geopolitico, con l’esplosione del conflitto russo-ucraino e la frammentazione della globalizzazione dei mercati che ne è seguita, con le sanzioni alla Russia e l’inasprirsi della dialettica sino-americana, che hanno inciso sull’internazionalizzazione e sulla propensione all’export di molte PMI marchigiane, costrette ora a fare i conti anche con la confusa politica dei dazi del trumpismo.

Si poneva, allora, e si pone tuttora un evidente problema di governance per le Marche. La necessità di avere una visione ampia e profonda delle sfide, capace di introdurre azioni di sistema nella dialettica tra flussi e luoghi e programmi di intervento specifici negli ambiti dello sviluppo sostenibile, del governo del territorio e della coesione sociale. Rispetto ai passi avanti fatti nella scorsa legislatura, rappresentati in particolare dall’istituzione dell’Autorità di sistema portuale dell’Adriatico centrale, dalla nascita della Camera di Commercio unica delle Marche, la quinta per importanza a livello nazionale, e dalla costituzione del Confidi Uni.co, il più grande del centro-sud Italia, la legislatura che si sta chiudendo non ha registrato apprezzabili avanzamenti, anzi abbiamo assistito ad una decisa regressione come nel caso della soppressione dell’Azienda sanitaria unica regionale (ASUR).

Insomma, le Marche della “doppia ricostruzione” (sisma e Covid), che per alcuni era della “tripla ricostruzione”, considerando gli effetti lunghi della grande crisi, richiedeva e richiede in realtà un’unica ricostruzione, la ricostruzione politica di una visione aggiornata ai tempi e all’altezza delle problematiche serie che le Marche vivono, capace di ispirare un rinnovamento delle forze politiche, economiche e sociali, delle classi dirigenti e di aprire un nuovo ciclo di governo progressivo per la nostra regione a livello nazionale ed europeo.

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La vittoria della destra è avvenuta di fronte al convergere di diverse linee di faglia, come abbiamo cercato di ricordare, e cavalcando il malessere e lo spaesamento di una comunità regionale ferita. Il centrosinistra che rappresentava una minoranza della società marchigiana, avendo vinto le elezioni del 2015 con il 42% dei consensi e metà del corpo elettorale che si era astenuto dalla partecipazione al voto, fatto inedito nella storia delle elezioni regionali, ha pagato una scarsa consapevolezza di tutto ciò e un eccesso di presunzione rispetto alla rilevanza delle contraddizioni in essere.

La vittoria della destra guidata da un esponente della cultura politica più ai margini della storia e dello sviluppo della Regione era un altro degli elementi che andava a comporre il quadro di un “post” che aveva i caratteri della fine di un ciclo. Ci si poteva aspettare l’esercizio di una forte discontinuità e il ridisegno di una Regione secondo coordinate culturali e programmi politici altri. Invece, ci si è limitati alle esternazioni tipiche di una cultura minoritaria (come quando sentiamo il Presidente della Regione dire che quelli della sinistra sono stati “30 anni di fallimenti” …) e ad un ulteriore, sensibile, scadimento della cultura di governo.

Oggi, al termine della legislatura, possiamo dire che la destra non è stata e non è la risposta ai problemi che le Marche vivono e che devono affrontare.

Proviamo a fare un bilancio proprio in quegli ambiti sconquassati dalla “tempesta perfetta” che aveva investito la regione.

Il sistema produttivo ha continuato a soffrire. Le Marche in dieci anni sono state la regione italiana che ha perso più imprese. Il calo ha riguardato anche le imprese giovanili e quelle guidate da donne. I dati dell’export 2024 rispetto all’anno precedente registrano un netto calo (-8,6%), ancora più accentuato rispetto al 2022 (-9,6%), a fronte di dati nazionali positivi (+1,2% sul 2023). Stesse dinamiche hanno riguardato la produzione industriale in un quadro nazionale che, dopo la fiammata post Covid, arretra consecutivamente da due anni. Le proiezioni di crescita sono deboli. Svimez accomuna Liguria, Marche e Basilicata nel calo del PIL e dell’export, e segnala l’incidenza nelle prime due regioni di crisi industriali con pesanti impatti sui territori. Basti pensare alla vertenza Beko e al distretto fabrianese. Marche e Abruzzo sono le uniche regioni che perdono occupati dipendenti, compensati dall’aumento degli indipendenti. I rapporti di lavoro sono sempre più precari: solo il 10,7% delle assunzioni sono a tempo indeterminato, il resto sono contratti a termine e intermittenti, questi ultimi molto sopra la media nazionale (19,4% contro 9,9%). Debole risulta anche la dinamica dei consumi delle famiglie (l’indice di capacità di spesa delle famiglie marchigiane è sotto la media nazionale secondo Altroconsumo) e della PA, mentre nelle previsioni del PIL fino al 2026 si ripropone all’interno del centro Italia la dicotomia tra Toscana e Lazio da una parte e Umbria e Marche dall’altra. Salari bassi e aumento delle persone a rischio povertà dicono la stessa cosa. Le Marche – come ha ricordato di recente Romano Prodi – sono la regione che negli ultimi 15 anni è più arretrata tra le regioni italiane. Insomma, ha fatto più fatica delle altre a riprendersi.

A fronte di questa situazione non si registra una riflessione all’altezza sui settori di punta dell’economia regionale, su quelli su cui investire strategicamente, né una politica di accompagnamento alle PMI che esportano nelle mutate condizioni dei mercati globali e continentali. L’investimento sul capitale umano e sulla formazione tecnica e tecnologica non va oltre l’intervento nazionale sugli ITS Academy, mentre il caso dello sbarco nelle Marche della Link University ha svelato l’approssimazione con cui viene considerata e trattata la formazione universitaria.

Il sistema urbano è stato destinatario di interventi contraddittori. L’attenzione verso l’entroterra e il cratere sismico è stata declinata attraverso la politica dei borghi. I borghi sono per definizione “i paesi che non ce l’hanno fatta”, privi di servizi e competenze. Una visione regressiva ed estetizzante, che ha segnato un oggettivo passo indietro rispetto alle politiche territoriali ispirate alle strategie d’area e di sistema intercomunale, all’associazionismo di servizi e funzioni, alle alleanze progettuali e di rete, fino ai casi di fusione consensuale tra Comuni. Da questo punto di vista non è un caso che la Strategia nazionale delle Aree interne (SNAI) sia stata abbandonata, che non vi sia stato nessun interesse per la Strategia delle Green Communities, che si sia proceduto con la frammentazione dei Parchi regionali (come nel caso del Parco regionale Gola della Rossa), che non vi sia stata alcuna riflessione su quale rapporto costruire tra le città polo di servizi, tutte in area costiera o collinare, e l’ampio entroterra  fatto di aree interne, la cui offerta di servizi ecosistemici al resto della regione non è stata neppure tematizzata. Nulla che abbia riguardato le Unioni dei Comuni e il riordino amministrativo in presenza di 140 Comuni su 225 interessati da un forte calo demografico, di cui la metà ha meno di 2000 abitanti e più di un terzo meno di 1000, ritenuti ormai in “collasso demografico”. Nessuna riflessione sul ripopolamento dell’entroterra, per via di un’allergia conclamata nei confronti dell’integrazione degli immigrati, che sono tornati per lavorare nei cantieri della ricostruzione post sisma, e della devozione ideologica ad una politica del campanile che, dopo cinque anni, non ha ancora visto partire un progetto concreto.

Dall’altra parte, vi è stata l’approvazione della nuova legge urbanistica. A lungo attesa, rappresenta una indubbia modernizzazione, ma il suo parto ha rappresentato un blitz non condiviso, avvenuto in assenza di un reale e corale dibattito sulle misure necessarie per introdurre una nuova politica per le città, il paesaggio e il governo del territorio, tutti temi essenziali in una regione come le Marche. Assenza di condivisione e poi archiviazione del tema, senza sentire il bisogno di un confronto con gli enti locali e la società civile.

Sul versante cruciale della ricostruzione post sisma l’impianto costruito dal Commissario Giovanni Legnini (2020-2022) è stato fondamentale per il suo concreto avvio. Si è beneficiato, quindi, dell’enorme lavoro fatto in termini normativi, organizzativi e programmatici dalla passata Struttura commissariale e di quanto garantito in termini di modalità e strumenti d’intervento pubblico e di stanziamento di risorse finanziarie da parte dei Governi Conte II e Draghi. Nella cortina fumogena propagandistica che circonda attualmente la ricostruzione post sisma, si ravvisano dei passi indietro che, in parte, rispondono ad un fisiologico venir meno dell’attenzione sul sisma del centro Italia a livello centrale e, in parte, ad una politica restrittiva imposta dagli obiettivi di finanza pubblica a livello europeo e nazionale e da errate scelte di politica fiscale ed economica del Governo. Sta di fatto che non ci sono stati ulteriori stanziamenti per la ricostruzione del centro Italia, che è stata tolta la Zona Franca Urbana (ZFU) che aveva sorretto finora il tessuto imprenditoriale del cratere sismico, che la fine del Superbonus lascia delle incertezze tutte da verificare sul nuovo meccanismo di finanziamento attraverso l’aumento del costo parametrico, che si obbligano le aree più fragili del Paese a stipulare costose polizze assicurative private, che gli strumenti messi in campo per il rilancio economico e sociale dell’area, cioè il Contratto Istituzionale di Sviluppo e il Programma Next Appennino, meriterebbero un attento monitoraggio per capire i livelli di attuazione finora conseguiti.

Il sistema del welfare territoriale e di comunità è giunto sull’orlo di una crisi strutturale. La reazione alla politica cosiddetta degli “ospedali unici”, che la destra aveva cavalcato, avrebbe dovuto impegnarla in una programmazione dei servizi fondamentali secondo una logica di rete sostenibile, a partire da quelli sanitari e sociosanitari. Invece, dopo l’emergenza Covid e contro ogni insegnamento frutto di quella esperienza, abbiamo assistito al definanziamento del Servizio sanitario nazionale e all’avvio a livello regionale di una controriforma organizzativa della sanità con l’aziendalizzazione su base provinciale e il finanziamento della sanità privata (inclusi i “gettonisti”) per funzioni sostitutive e non complementari rispetto alla sanità pubblica. Gli investimenti corposi del PNRR hanno portato ad una localizzazione degli Ospedali di Comunità e delle Case di Comunità di cui si fa fatica a capire la logica. Ovviamente non è stato riaperto nessuno degli Ospedali che si diceva fossero stati chiusi dal centrosinistra quando governava la Regione, ma si è proceduto all’individuazione di due ospedali di area disagiata (Pergola e Cingoli), oggetto di particolare attenzione politica e di investimenti inappropriati rispetto alla stessa classificazione delle strutture. I programmi di edilizia sanitaria registreranno per la fine dell’attuale legislatura l’inaugurazione degli ospedali di Amandola e di Fermo, avviati e finanziati nella precedente. Nel frattempo, mobilità passiva, liste d’attesa, carenze di personale, aumento delle persone che rinunciano a curarsi, peggioramento di alcuni indici come quelli relativi alla prevenzione e sottofinanziamento dei servizi di assistenza agli anziani, ai malati mentali e alla disabilità delineano un quadro molto preoccupante per la tenuta del sistema sociosanitario regionale. Tra l’altro, la stessa carenza di personale medico e infermieristico non è attribuibile in via esclusiva alla mancata programmazione, ma in maniera significativa all’accresciuta richiesta di queste professioni dopo il Covid, per cui sono state attratte all’estero o nel settore privato dalle migliori condizioni di lavoro e remunerazione. Il personale del sistema sanitario pubblico, invece, ha dovuto scontare le promesse non mantenute, dopo i peana sugli “Angeli del Covid”.

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Come si vede, la destra non ha rappresentato né una reale discontinuità, né quel cambiamento che il rilancio delle Marche avrebbe richiesto e richiede.

Uno dei terreni su cui la propaganda della discontinuità è stata più martellante è quello delle infrastrutture. Anche qui, però, il bilancio è molto magro. L’ansia di marcare una diversità rispetto al ciclo di governo del centrosinistra è stata in parte mal riposta, considerando quanto i risultati visibili nelle grandi opere siano lenti a prodursi, ma anche perché il centrosinistra dopotutto poteva vantare una serie di realizzazioni: dal progetto Quadrilatero di penetrazione interna Marche-Umbria, che è stato reso sostenibile e fattibile, alla terza corsia dell’A14 fino al nodo di Pedaso, dalla variante alla SS16 (primo tratto uscita nord di Ancona) all’elettrificazione delle due linee ferroviarie interne, la Ascoli-Porto d’Ascoli e la Civitanova Marche-Albacina. Al di là della produzione del Masterplan sulle Infrastrutture, che - insieme alla controriforma organizzativa sanitaria e alla legge urbanistica - rappresenta il lascito programmatico della destra al governo, l’enfatizzato sblocco delle infrastrutture non c’è stato. L’uscita nord del Capoluogo non è partita, qualche movimento intorno alla Galleria della Guinza e alla Salaria e nient’altro. In area cratere per proseguire la Pedemontana verso sud sono stati sottratti 100 milioni di euro dal Programma Next Appennino, che avrebbero potuto finanziare ulteriori progetti imprenditoriali. A livello ferroviario ci si è spesi su iniziative minori, come il treno storico per Pergola, mentre gli interventi sulla linea Orte-Falconara sono ascrivibili al PNRR che ha previsto investimenti sulle diagonali ferroviarie. L’enfasi sul tema infrastrutturale è naufragata sul blocco di 1 miliardo e 800 milioni per la realizzazione del by-pass ferroviario di Pesaro, che potrebbe rappresentare il primo tratto dell’arretramento della ferrovia Adriatica e di un progetto di Alta Velocità Bologna-Ancona, e sul dirottamento al Nord delle risorse del raddoppio del tratto Serra San Quirico-Castelplanio della Orte-Falconara.

Le Marche hanno bisogno di un massiccio piano di interventi sulle infrastrutture: dal completamento della A14 in arretramento all’Alta Velocità ferroviaria, ma occorrerà impegnarsi in primo luogo per risolvere la strozzatura del Capoluogo regionale, per far uscire dall’isolamento l’entroterra e l’area del cratere con il completamento della Pedemontana a sud e a nord, e per proseguire sulle direttrici incompiute della Salaria e della Fano-Grosseto, con l’obiettivo di evitare il ripiegamento di questi territori verso sud e verso nord.

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Eppure, la destra ha gestito una fase inedita e senza precedenti nella storia della Regione, della Repubblica e dell’Unione europea se pensiamo all’ingente disponibilità di risorse. La ricostruzione post-sisma, il PNRR, il Piano nazionale complementare, che include le risorse del Programma Next Appennino, la Programmazione europea dei fondi SIE, accresciuta dallo status di regione in transizione, l’Accordo di coesione siglato tra il Governo nazionale e la Regione, il Contratto istituzionale di sviluppo hanno assicurato risorse per quasi 20 miliardi alle Marche. Una cifra enorme che la destra ha gestito non condividendo le scelte e gli strumenti che a quelle risorse hanno dato corpo e sostanza, come accaduto nel voto contrario sul PNRR o nella polemica continua sull’Unione europea, dipinta come matrigna e non fonte di opportunità. Non a caso la gestione di queste risorse, laddove è stato possibile, è avvenuta con discrezionalità politica, sostituendo alla corretta e leale collaborazione tra istituzioni la “filiera di partito” e occupando ogni spazio di potere.

C’è bisogno, dunque, di un nuovo progetto per le Marche del 2050 che consenta di aprire un nuovo ciclo di governo delle forze democratiche e progressiste. C’è bisogno di un’alternativa che segni una effettiva svolta e che non è riassumibile in un diverso programma amministrativo, bensì in una visione alternativa delle Marche e della sua prospettiva, all’altezza dei tempi, consapevole dei problemi grandi che la nostra regione deve affrontare e capace di mettere in campo una diversa qualità di governo, di cui un nuovo centrosinistra deve essere alfiere.

Un progetto che si fondi su un’idea delle Marche come regione europea, che si sente fino in fondo parte del progetto europeo. Ciò vuol dire non soltanto attrezzarsi per cogliere molto più di quanto è avvenuto finora le opportunità che l’Unione mette a disposizione delle regioni e dei territori europei, aiutando anche gli Enti locali a beneficiarne. I prossimi anni non saranno come quelli che abbiamo vissuto dopo il Covid, cioè caratterizzati da una disponibilità di investimento senza precedenti. Dovremo tornare a reperire risorse e a farlo con maggiore efficacia del passato. Essere una regione europea significa anche condividere le responsabilità dell’Europa in una fase cruciale della sua storia e della storia del mondo; significa essere attori insieme alle altre regioni europee dell’affermazione di un’Europa federale che a partire dall’esperienza del PNRR non releghi il debito comune al finanziamento del riarmo dei singoli Stati, ma lo usi innanzitutto per costruire nuovo sviluppo e benessere; significa lavorare per la difesa e il rafforzamento della democrazia e della pace, di cui l’Europa è emblema di civiltà nel mondo. Ciò vuol dire riscoprire anche il ruolo della Regione come ganglio istituzionale fondamentale dell’assetto democratico dello Stato, ad esempio rispetto all’attuazione dell’Autonomia differenziata, ma anche nel lavoro politico di rigenerazione di una cultura istituzionale e di governo che la destra ha contribuito enormemente a logorare e svilire: senso delle istituzioni, idea e prassi del potere come servizio, rispetto della distinzione delle funzioni tra politica e amministrazione, valorizzazione del merito e delle competenze, apertura ai contributi esterni e alla partecipazione informata dei cittadini.

Un progetto che ponga le basi di un'alleanza tra le forze del lavoro, dell’impresa e della cultura per far ripartire le Marche. Una regione con una base produttiva industriale e manifatturiera orientata all’export dovrà affrontare fin da subito e nei prossimi anni uno scenario complesso. Le imprese marchigiane dovranno posizionarsi meglio sul mercato europeo, riorientare la presenza sui mercati esteri, riorganizzare filiere e piani di investimento, e la Regione sarà chiamata ad accompagnarle con strumenti agili e continuativi nel tempo. L’obiettivo deve essere quello di far tornare le Marche tra le regioni che viaggiano sopra la media nazionale, in stretto rapporto con le aree più sviluppate del Paese, farle uscire dallo status di regione in transizione, liberarsi della “trappola dello sviluppo” e contrastare la deindustrializzazione delle aree interne della regione. Le Marche rischiano di essere l’emblema delle difficoltà che vive il nostro Paese, mentre devono tornare a dare un contributo alla loro soluzione e ad indicare la strada di uno sviluppo territoriale virtuoso e sostenibile.

Un progetto che promuova un patto per il lavoro, la salute e il clima, sull’esempio di quel che hanno fatto Regioni come l’Emilia Romagna. Ridare valore al lavoro, alla qualità, al contenuto di conoscenza, alla sicurezza, alla retribuzione del lavoro è fondamentale se vogliamo creare coesione sociale, realizzazione personale, frenare la fuga delle giovani generazioni e invertire il trend della denatalità. Occorre chiamare a raccolta tutte le energie a disposizione per una riforma profonda del welfare pubblico in una logica sussidiaria: rimettere al centro la sanità pubblica con i suoi punti di forza e di debolezza, definire una funzione complementare e integrativa - non sostitutiva - della sanità privata, far funzionare la medicina territoriale, realizzare una vera integrazione sociosanitaria anche attraverso la riorganizzazione di Ambiti territoriali sociali e Distretti sanitari, definire percorsi di co-programmazione e co-progettazione con gli Enti del terzo settore. In chiave di coesione sociale e di transizione verso la sostenibilità diventano centrali i temi della casa, del diritto allo studio, del trasporto pubblico locale, dei servizi pubblici-locali (acqua, rifiuti), dell’accessibilità e abilità digitali, dei servizi eco-sistemici, della difesa degli ecosistemi, delle energie rinnovabili, del consumo del suolo e dello sviluppo urbano sostenibile. Tutti temi da affrontare e approfondire.

Contro la deindustrializzazione occorre mettere al centro il tema della manifattura innovativa, sostenibile, culturale, e dei servizi ad alto contenuto di conoscenza. Contro la marginalizzazione abbiamo bisogno di una politica per le città e le aree interne delle Marche, che guardi anche alle relazioni interregionali e al centro Italia. Contro l’impoverimento è necessaria una riforma del welfare secondo una visione ad ampio spettro che tenga presente gli indicatori del Benessere equo e sostenibile (BES), il cui rapporto 2024 ci dice che, se le Marche si mantengono su buoni livelli di benessere, per quanto riguarda invece la qualità dei servizi, in particolare la mobilità e la sanità, zoppichiamo sensibilmente.

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Aprire un nuovo ciclo di governo che si fondi su un progetto per le Marche del 2050 richiede, infine, di alzare l’asticella delle ambizioni e di aprire le Istituzioni alle competenze, alle migliori intelligenze e risorse umane di cui possiamo disporre. Puntare sul ritorno di talenti e sul ringiovanimento della Pubblica amministrazione, ridare valore al lavoro nel comparto pubblico è fondamentale per aprire una nuova stagione di rinnovamento degli strumenti regionali della pianificazione e della programmazione, dopo la stagione degli anni Novanta del secolo scorso, di efficientamento digitale della macchina amministrativa, di qualificazione, semplificazione e razionalizzazione della legislazione regionale. C’è, dunque, un grande lavoro da fare se si vuol dare forma al “Post” delle Marche.




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