NASCERANNO NUOVI DUCHI
Lo storico Bernardino
Feliciangeli, indagando le Marche del passato, si chiedeva come mai le piccole
Signorie del periodo medievale fossero nate tutte nelle aree interne e montane della
regione.
Rappresentavano un fattore di
arretratezza? Tutt’altro, quelle erano al tempo le aree più ricche del
territorio. Costituivano il condizionamento che il vasto contado esercitava
sulla città, nella fase successiva all’incastellamento e alla nascita dei
Comuni? Sicuramente, essendosi i Signori inurbati pur continuando ad avere
nelle campagne possedimenti e attività dal cui controllo ricavavano ricchezza e
consenso. Oppure fungevano da elementi indispensabili di una dinamica di
riconoscimento sociale in aree la cui accentuata rugosità e granularità
richiedevano punti di riferimento popolari e unificanti, tali da garantire il sostentamento
familiare e un minimo di solidarietà? Sì, indubbiamente.
Il Signore era percepito come
“uno di noi”, pur non essendolo.
Se penso alla figura di Francesco
Merloni, venuto a mancare alla veneranda età di 99 anni, faccio fatica a non
pensare all’immagine di un Signore, neanche tanto rinascimentale, ma della
florida Italia del Trecento. Fatte naturalmente le debite differenze con
l’oggi. Una per tutte, l’avere la propria forza in alcun modo nella milizia, ma
nell’economia, in quell’industria che, ereditata dal padre, egli da primogenito
ha saputo innovare e portare avanti fin dentro il nuovo secolo.
Luigi Rossi in un bel saggio
dedicato a “Il metalmezzadro: tra mito e realtà”, che fa parte di un volume
edito per i Cinquanta anni della Regione Marche, richiama questa continuità di
lungo periodo e che ha segnato una sorta di dualismo all’interno della regione.
“L’esperienza di Merloni – scrive
Rossi riferendosi ad Aristide – mette in luce un duplice aspetto del fenomeno e
del ruolo della pluriattività o part-time all’interno del modello marchigiano.
La regione ancora una volta appare divisa in due: un’area interna
alto-collinare e montana caratterizzata dalla piccola proprietà e dalle
comunanze e un’area marittima e collinare dove prevale la mezzadria. Nelle zone
interne i contadini-proprietari e i montanari si radunano a schiera intorno ad
un “capitano”, in questo caso d’industria, considerato ‘uno dei nostri’. La
fabbrica come il castello, gli operai come soldati, stretti attorno non al duca
di Montefeltro o a quello di Camerino come una volta ma all’imprenditore
carismatico, per formare l’esercito dei padroni-operai. Le Marche basse invece
sono la patria dei metalmezzadri veri, quelli che sono in fuga dalla mezzadria,
costretti per il momento a fare gli operai ma che presto o tardi si metteranno
in proprio. Da una parte la cosiddetta ‘costellazione dell’Orsa Maggiore’ con i
sette stabilimenti di Merloni, dall’altra la nebulosa delle fabbrichette sparse
un po’ ovunque nei fondivalle, sulle colline intorno ai paesi e lungo la costa.
Un paesaggio e un mito che si stanno dissolvendo insieme al mondo che li ha
generati”.
Un mondo in via di dissolvimento,
ma che ha dato alle Marche la grande industria e le economie di distretto, che
hanno fatto la ricchezza dei territori e i cui aggiornamenti 4.0 cercano di
tenere testa ai cambiamenti.
La figura di Francesco Merloni,
complice anche la sua lunga vita, ci appare come l’estrema propaggine di quel
mondo, quasi l’emblema di un altro tempo, ma è la stessa persona che ha
traghettato l’industria marchigiana più rappresentativa dentro il mercato
europeo e la competizione globale, riuscendo dove i suoi fratelli non avevano
saputo o potuto. Internazionalizzazione e ricambio generazionale, a cui sono
seguite nuova governance, quotazione in Borsa, diverse acquisizioni e
produzioni in sintonia con i temi della sostenibilità.
Traghettatore è stato anche di
una tradizione politica e di una certa idea della politica, che ha saputo in
maniera lungimirante adattare ai cambiamenti e alle evoluzioni, fino alla
scelta progressista, abbracciata con moderazione e determinazione, rimanendo
fedele ai propri convincimenti e valori ispirati ad un cattolicesimo liberale e
popolare.
Animatore e sostenitore convinto è stato, inoltre, di iniziative e luoghi di ricerca applicata a progetti. Il più delle volte con respiro e declinazioni territoriali e interregionali, secondo una visione culturale della politica e dell’impresa che devono costantemente nutrirsi di conoscenza e progettualità. Presidente fino alla fine della Fondazione Aristide Merloni, ha stretto nel tempo significative collaborazioni con personalità come Giuseppe De Rita, Nino Andreatta e Romano Prodi e con le loro creature, dal Censis all’Arel, da Nomisma e Prometeia.
Le sfide da tempo e ora ancora di
più sono nelle mani di altri. Resta e resterà di Francesco Merloni quell’intreccio tra
passione politica, intraprendenza imprenditoriale, legame con il territorio e
sguardo aperto sul mondo che lo ha portato a nutrire molti interessi, a
sostenere iniziative più o meno munifiche, a partecipare alla vita civile e
sociale e ad accompagnare l’espansione della propria impresa con un’attenzione
al locale, che poi vuol dire alle persone. Un tratto proprio di una stagione
della classe dirigente del nostro Paese, che egli ha interpretato appieno, ma
anche un aspetto antico e tipico di quella storia lunga che abbiamo richiamato.
Non sappiamo dire di lui quel che
si dice di alcuni Signori rinascimentali e cioè che dedicassero la propria
ricchezza in parti uguali al funzionamento dello stato, alla cura degli affari
e al mecenatismo culturale. Sta di fatto che la politica, l’impresa e la
cultura erano i suoi interessi pubblici, compenetrati fino al punto di far
sfumare i confini. Tanto ci basta per annoverarlo ad un mondo i cui valori non
tramontano e ad una parte delle Marche che ci restituirà - ne sono certo -
nuovi duchi.
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