UNA VIA PROGRESSIVA PER L’ARCIPELAGO MARCHE




Il fatto che le Marche siano una “regione in transizione” è reso evidente da una serie di processi in atto da tempo che riguardano la sua geografia organizzativa.

Le Marche continuano ad essere imprigionate in una “trappola dello sviluppo”, dalla quale non riescono ad uscire, e sembrano essersi adagiate a recitare la parte, non so per quanto tempo, di testa delle Regioni meridionali, piuttosto che di inseguitrice competitiva del gruppo delle Regioni più avanzate del Paese.

L’ultimo rapporto annuale della Banca d’Italia conferma a pieno questa situazione, insieme ad indicare per il prossimo futuro delle prospettive da “encefalogramma piatto”.

L’ingresso nel commercio mondiale dei Brics e il contenimento dell’Occidente da parte di nuovi protagonisti che conquistano quote di mercato a discapito anche dell’economia europea, sta producendo un rinserramento di molti Stati-nazione, tra cui l’Italia che più di altri sconta la sua fragilità produttiva, tecnologica e innovativa.

Il sovranismo non è che il sintomo di questo ripiegamento, un modo di pestare i piedi in maniera sterile e a volte nociva, e le Marche sono immerse dentro questa atmosfera.

La stessa insistenza sulle potenzialità turistiche anche del più piccolo Comune risulta spesso una sorta di declamazione di un’identità originaria e rassicurante, piuttosto che un progetto di sviluppo sostenibile con caratteri di sistema. Mentre i destini dell'apparato produttivo manifatturiero e industriale, che resta la base della nostra ricchezza, appaiono derubricati dall’agenda delle priorità.

Di fronte a questo cambiamento, le spinte sono contrastanti e la direzione di marcia incerta e altalenante. Nel frattempo, la periferizzazione delle aree interne è cresciuta, al punto da non avere più una città polo in tutto l’entroterra marchigiano, e la frammentazione territoriale aumenta. I divari intraregionali sono sempre più marcati, ma anche le aree più forti faticano a tenere il passo.

Come avvenuto plasticamente in Parlamento, dove in occasione della discussione sull’Autonomia differenziata sono tornati a sventolare i drappi degli stati preunitari, anche da noi occorre tornare a ripassare le geografie preunitarie per cercare capire alcuni movimenti che si sono via via affermati.

Pensiamo alla nascita della provincia di Fermo per divisione da quella di Ascoli Piceno, alla secessione della Valmarecchia e, da ultimo, al riconoscimento di Urbino capoluogo, che sta risvegliando ambizioni di autonomia provinciale. Manca la provincia di Camerino e la geografia delle delegazioni pontificie, almeno nominativamente, sarebbe ripristinata! Dopotutto, furono proprio le tre sedi di arcidiocesi (Camerino, Fermo e Urbino) ad essere penalizzate dalla costruzione laica dell’unità nazionale. Poi ad Urbino è andata meno peggio, come accaduto anche più di recente con le circoscrizioni giudiziarie.

La sensazione è che l’Autonomia differenziata finirà per incoraggiare i processi di frammentazione a discapito di assetti sempre meno sostenibili. D’altra parte, vanno già in questa direzione la logica dei borghi, la difesa della sanità così com’è e un’idea di ricostruzione post-sismica che, se non fosse stato per la novità di Next Appennino, sarebbe finita nel nominalismo della “riparazione”.

In tutt’altra direzione sono andate dall’inizio del nuovo secolo la nascita dell’Asur, ora smantellata, dell’Autorità portuale del medio-Adriatico, della Camera di Commercio unica delle Marche, del Confidi Uni.co., divenuto il più grande del centro-sud; persino le Diocesi si sono messe in discussione ricercando l’unità tra territori. Sono rimasti al riparo da queste dinamiche i servizi pubblici locali, differentemente da quanto accaduto altrove.

Certo questo processo non è stato esente da ambiguità. Alcune scelte sono apparse più frutto di una logica meramente accentratrice e unidirezionale, che di una volontà d’innovazione capace di restituire ai cittadini servizi più efficienti. Costringendo i territori più deboli a pagare l’ennesimo prezzo o a temere di doverlo fare. Potremmo ascrivere a questa casistica lo svuotamento delle Province e l’idea degli ospedali unici provinciali.

Bisogna tornare, dunque, a riflettere sulle reti policentriche, ma coese e sostenibili del sistema Marche, in un’ottica equilibrata che sappia guardare alle sfide del futuro. A partire dai servizi fondamentali dell’istruzione, della sanità, della mobilità e accessibilità, fino ai progetti di sviluppo e innovazione a vocazione territoriale. Tra l’ideologia della massa critica e le piccole patrie, tra sommersi e salvati, c’è da sperare che l’arcipelago Marche sappia trovare il modo di sopravvivere all’innalzamento degli oceani. 

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