PARTIRE DALLE AREE INTERNE PER UNIRE IL PAESE
Su iniziativa di Felice Accrocca,
arcivescovo della città sannita, il 16 e 17 luglio scorsi si sono ritrovati in
30 provenienti da 14 regioni all’insegna del richiamo di Papa Francesco a
porgere lo sguardo alle “periferie”, ragionando di come si deve e si può essere
presenti in questi luoghi.
La crisi delle vocazioni spinge
la Chiesa ad interrogarsi sul ruolo delle unità pastorali, del laicato e
persino dei catechisti quali referenti di piccole comunità. Le Aree interne, in
una società sempre più secolarizzata, diventano - paradossalmente - luoghi che
anticipano fenomeni rispetto ai quali ad altri livelli si continua a combattere
uno scontro tra riformatori e conservatori.
Da questo punto di vista le
parole del Cardinal Zuppi: “Le aree interne sono il presente e ci indicano il
futuro” hanno colto nel segno, così come il suo invito a “partire dalle
periferie per capire anche tutto il resto”, perché “il centro si capisce dalle
periferie”, anche laddove - come nelle aree del sisma - esistono periferie
senza centro.
Il capo dei vescovi italiani ha
poi invitato a ragionare su “un’idea seria di accoglienza”, come contributo alla
tenuta demografica dei territori, e a coltivare uno sguardo unitario del Paese,
dichiarando che “le aree interne sono indispensabili per capire l’insieme”.
Un rischio reale, infatti, si
para innanzi al loro futuro: il disegno dell’Autonomia differenziata, che mette
a rischio l’unità del Paese e aggrava le disuguaglianze non solo tra Nord e
Sud, ma anche all’interno delle singole regioni, tra le aree più forti e quelle
più deboli.
In un recente documento del Forum
Disuguaglianze Diversità, intitolato “Autonomia differenziata e disuguaglianze
di accesso ai servizi”, si motiva con dovizia di particolari perché la legge n.
86 del 26 giugno 2024 “Disposizioni per l’attuazione dell’autonomia
differenziata delle Regioni a statuto ordinario” mini alle fondamenta i
principi di solidarietà nazionale e perequazione, previsti dall’art. 119 della
Costituzione, il diritto a pari prestazioni a prescindere dal luogo di
residenza e l’unitarietà delle politiche pubbliche.
In un Paese già fortemente duale
e dis-eguale, questa legge finirebbe per estremizzare le disparità, anziché
ridurle pensando di responsabilizzare la politica locale, e per far saltare i
conti pubblici. Già pericolosamente vicini ai 3000 miliardi di euro
d’indebitamento.
Ad avere la peggio sarebbero i
servizi universali di welfare: sanità, istruzione e assistenza, in particolare
agli anziani. La definizione dei Livelli essenziali delle prestazioni (LEP),
infatti, è stata rinviata di due anni e si stima che la loro eventuale
attuazione richiederebbe a regime almeno 100 miliardi di euro. Qualcosa di
insostenibile per la finanza pubblica. Ma l’adozione del criterio della spesa
storica, unico riferimento della legge approvata, dalla cui applicazione - è
scritto - “non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza
pubblica”, rende ancora di più insostenibili socialmente e territorialmente le
sue conseguenze.
È qui che si nasconde lo
scardinamento dei sistemi universalistici di welfare, già ampiamente in
sofferenza per il cronico sottofinanziamento e le carenze storiche, che
produrrà non soltanto la loro frammentazione su base regionale, ma colpirà nel
caso della sanità l’equità di accesso alle prestazioni e la qualità delle
stesse, destinate a ridursi e a peggiorare nelle aree più deboli del Paese,
innescando tra l’altro competizioni tra sistemi regionali e migrazioni di
utenti da sud a nord e dalle aree interne a quelle urbane. Più forti di quanto
già non accada.
Lo stesso dicasi per l’istruzione
pubblica, che rischia la frammentazione dei programmi scolastici e dei sistemi
di reclutamento degli insegnanti, quando anche in questo caso il vero problema
è che il nostro è uno degli stati europei che investe meno in educazione
rispetto alla propria economia. Servizi all’infanzia e agli anziani non autosufficienti
completano la disamina.
Ma la battaglia contro
l’Autonomia differenziata non riguarda solo il welfare. Temi cruciali come
l’energia, i trasporti, le infrastrutture, l’ambiente e la ricerca verrebbero
ricondotti dentro confini regionali con grave nocumento per lo sviluppo di reti
e servizi a sostegno dell’impresa, che invece è chiamata a competere su mercati
continentali e globali.
Infine, l’idea delle intese
Stato-Regione estromette il Parlamento dalla decisione di conferire le materie alla
singola Regione che ne fa richiesta, mentre la legge non prevede correttivi,
valutazioni, requisiti, condizionalità e tempi da rispettare. La cessazione
integrale o parziale dell’intesa a causa della violazione dei LEP è possibile,
ma ciò richiede una legge votata dalle Camere a maggioranza assoluta. Della
serie: o non se ne fa niente o il conflitto istituzionale, modello Catalogna, è
servito.
Unire il Paese, unire le aree
interne e queste a quelle urbane intorno ad una proposta di sviluppo
sostenibile ed equilibrato è, dunque, il compito irrinunciabile dei prossimi
mesi. Senza alcun dubbio pensiamo che ne valga la pena.
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