UN MONDO A PARTE, ANZI NORMALE




Il film di Riccardo Milani “Un mondo a parte” ha avuto il merito di portare sul grande schermo le cosiddette “aree interne”, non soltanto come sfondo di una qualche storia di successo, ma come oggetto e contenuto principale della narrazione.

Infatti, la storia d’amore tra il maestro Michele Cortese (Antonio Albanese) e la vicepreside Agnese (Virginia Raffaele) si costruisce nel piccolo paese di Rupe (Opi) nella montagna abruzzese e intorno alla comune battaglia per salvare la pluriclasse e con essa la scuola del posto.

Tema sensibile, quello della scuola, di tutti i paesi delle aree interne, tant’è che la stessa Strategia nazionale dedicata a questi luoghi ha individuato da tempo nella presenza di servizi essenziali, come sono quelli dell’istruzione, della sanità e della mobilità, le precondizioni della sopravvivenza e dello sviluppo sostenibile di queste aree.

L’obiettivo dei protagonisti è quello di evitare la fine che ha fatto il vicino paese di Sperone, dove la chiusura della scuola ha determinato il definitivo abbandono da parte della popolazione residua e la sua trasformazione in un borgo spettrale e in rovina. È questo il principale assillo di ogni persona legata alle piccole realtà della montagna italiana e di chi vi ricopre delle responsabilità pubbliche.

Ma il film è interessante anche perché ci offre una tipologia precisa e ironica dei tipi umani e delle situazioni proprie di contesti come quelli richiamati. Di fronte alla rassegnazione che sembra permeare l’intera comunità e che fa dire ad Agnese “tutti perdenti, tutti contenti”, due sono gli atteggiamenti di falso riscatto: il primo è quello del maestro Cortese, che è alla ricerca di un’autenticità che non trova nel mondo di provenienza, la città, e pensa – sulla base di una formazione libresca – di trovarla nel borgo quale sublimazione di un luogo e di una comunità originari. Il secondo è quello dei genitori del ragazzo che testardamente vuole costruire il suo futuro nel paese, facendo l’agricoltore. Essi dissacrano giustamente il modo di porsi di Cortese, ben sapendo cosa significhi vivere ogni giorno una vita ai margini, ma quando pensano al futuro (per il loro figlio) anch’essi non riescono che a pensarlo altrove.

Il futuro è per tutti altrove. Per chi resta c’è solo l’abitudine, la rassegnazione e la sconfitta. Tranne per chi vuol combattere, se non altro per non darla vinta a chi - come il Sindaco del vicino comune di Castel Romito - sta soltanto aspettando che la morte del campanile contiguo avvantaggi il proprio, secondo una visione molto diffusa ma pur sempre illusoria.

Il film è ben congegnato e alla fine attraverso l’escamotage dei bambini ucraini e del finto disabile la battaglia per avere il numero minimo e mantenere la scuola nel paesino di Rupe è vinta. Ma, ci viene da chiedere, per quanto?

Dal film alla realtà, il problema dei servizi nelle aree interne è una questione complessa. Prendiamo, ad esempio, quanto si sta facendo nella ricostruzione del Centro Italia dopo il sisma del 2016/2017. In un territorio appenninico e alto collinare con dinamiche demografiche differenziate, ma sensibilmente orientate verso l’invecchiamento, e con uno spopolamento accelerato dagli stessi eventi sismici (come evidenziato anche da Banca d’Italia), si stanno ricostruendo 450 scuole per una spesa di circa 1,3 miliardi. Ante aumento energia e materie prime, quindi una cifra destinata a salire sensibilmente.

La logica è stata quella della ricostruzione delle scuole in ogni paese in nome del “dov’era com’era” e del fatto che ogni comunità pensa al proprio futuro senza una programmazione specifica e d’ambito intercomunale, foss’anche rivolta alle azioni per il neo-popolamento. Le Regioni hanno assecondato questa impostazione per non inimicarsi gli amministratori locali. Il Governo è andato incontro, derogando per l’area del cratere sismico ai criteri minimi per la formazione delle classi e destinando allo scopo qualche risorsa residua.

La prospettiva abbastanza ravvicinata è che le scuole che verranno ricostruite non avranno i bambini per farle vivere e la gran parte di esse finirà come quelle scuole di campagna che si continuavano a costruire durante gli anni Cinquanta del secolo scorso, quando la montagna conosceva l’avvio di un esodo biblico verso i fondivalle dell’industria e dei distretti incipienti e le zone costiere. Il non detto è che ciascun Sindaco spera di essere come quello di Castel Romito, destinatario cioè di qualche piccolo gruppo di bambini che tengano in vita la sua scuola a discapito di quella del paese limitrofo.

Ho fatto questo esempio per dire che è necessario combattere per il futuro dei 3834 Comuni delle aree interne, che coprono circa il 59% del territorio nazionale e nei quali vive il 23% della popolazione, circa 13 milioni di abitanti. Ma occorre capire bene quali devono essere gli obiettivi della lotta, perché non sia velleitaria. Voglio dire che il film sarebbe stato ugualmente divertente, ma forse più convincente, se il punto di caduta della dialettica narrata fosse stata la realizzazione di una nuova scuola, magari a metà strada tra Rupe e Castel Romito, più bella, sicura, accessibile e spaziosa, ricca di un’offerta didattica all’avanguardia, nella quale tutti i bambini del territorio avessero potuto ritrovarsi e fare amicizia.

Una scuola attrattiva e senza pluriclassi, capace di seppellire il campanilismo. In questo mondo possibile e non a parte, anzi finalmente normale anche per i paesi del margine, l’amore sarebbe sbocciato ugualmente, ma senza dover convivere con l’incubo della sorte. 

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