In occasione del Dantedì CARTA È CULTURA. LO DICE ANCHE DANTE!
In occasione dei 700 anni della morte del sommo poeta l’editore Salerno ha pubblicato una edizione della Divina Commedia, a cofanetto in due volumi formato tascabile, che fa il vanto di chi la possiede e l’ha affidata alla cura del più grande dantista vivente, Enrico Malato.
Nell’introduzione al testo
poetico, racchiuso nel primo volume (il secondo è un vocabolario dell’opera) e
chiosato da note essenziali alla lettura, lo studioso napoletano ci ricorda
come Dante Alighieri - grazie al successo della Comedìa - sia divenuto ormai un
“mito”, al quale - aggiungiamo noi - si è finito per far dire di tutto e per
attribuirgli le più astruse etichette. Persino che fosse “di destra” …
Non volendo incorrere in un
simile rischio, dico subito che quello del sottoscritto è soltanto uno scherzo in
occasione del Dantedì e come tale va considerato. Soprattutto, non ha alcuna
velleità di attribuire appartenenze politiche, anche perché basterebbero le
scelte di fondo operate da Dante, sul genere letterario e sulla lingua, per far
capire quanto fuori luogo e tempo siano certe dichiarazioni.
Quella di Dante fu una vera e
propria rivoluzione linguistica e letteraria con l’obiettivo di raggiungere il
più ampio pubblico del suo tempo. L’esatto contrario di una concezione
conservatrice della cultura, la quale avrebbe voluto l’opera scritta in latino,
ad uso delle élites e delle aristocrazie del tempo, secondo un’idea ristretta,
gerarchica e diseguale della società.
Nel nostro scherzo ci piace
ipotizzare che il sommo poeta abbia lasciato qualche segno della sua idea di
cultura già in quel Canto primo, così famoso, che di fatto introduce alle tre
Cantiche (Inferno, Purgatorio e Paradiso) e che ci spinge ad essere solidali
con la condizione umana che egli vi narra, al punto da essere presi quasi per
mano. Dante da Virgilio, noi da lui, pronti ad iniziare il viaggio.
“Scrivere è vestire di carta
di regalo una disfatta”, ha detto Saul Bellow. E la Divina Commedia non è altro
che questo: un dono dal valore universale che nasce da una cocentissima
disfatta, personale, politica e umana.
Dante è un
intellettuale-politico che vive la sconfitta della propria parte politica, la
condanna e l’esilio, lo smarrimento e il distacco di chi non condivide più il
modo di essere e di fare della propria comunità di appartenenza, nella quale ha
preso il sopravvento “la matta bestialitade”, e vede il proprio percorso di
vita di colpo interrotto. Entra nella depressione più nera, ripensa agli errori
commessi e alle ingiustizie subite, comprende la vacuità di quella vita e si
sente in definitiva estraneo da essa, fino a rammagliare - toccato il fondo
della disperazione - le poche certezze della sua esistenza, prima tra tutte e
forse unica la propria dignità, e a compiere un cammino nuovo e diverso, una
conversione di vita e d’animo, con la speranza di tenere fede a se stesso e al
bene.
“Incipit Comoedia Dantis
Alagherii, Florentini natione, non moribus”. È di destra, di centro o di
sinistra tutto ciò? Di certo questa è stata la condizione di tanti grandi italiani che
hanno amato visceralmente il proprio Paese e sono finiti per dover fare partito
a sé, rinunciando ad un progetto di cambiamento, collettivo e individuale, feriti
dalle meschinità e dalle faziosità, dall’intima corruzione degli animi e dagli
estremismi velleitari e di comodo.
Ecco allora lo smarrimento
nella selva oscura (vv. 1-12), il colle illuminato da sole (vv. 13-30), le tre
fiere (vv. 31-60), l’apparizione di Virgilio (vv. 61-99), la profezia del veltro
(vv. 100-111), l’annuncio del viaggio oltremondano (vv. 112-136), che
scandiscono il primo Canto.
Il nuovo inizio e il tentativo
di ricostruire il proprio percorso di vita si scontrano subito con la minaccia
insidiosa delle tre bestie, che rappresentano delle scorciatoie esistenziali,
capaci - se abbracciate - di condurre alla definitiva perdizione: la lince, il
leone e la lupa. Difficile dire con precisione quali bassi sentimenti esse
rappresentino; forse lussuria, superbia e avidità. È la vista di Virgilio, la
sua apparizione, a costituire l’estremo appiglio che consente di uscire dal
vicolo cieco. Ciò che era divenuto “fioco” e che ora si appalesa, è la ragione,
quel che rende l’uomo degno, un’idea alta di umanità a cui restare fedeli,
impersonata dalla figura del grande poeta.
Qui s’inserisce la “profezia”
del veltro, unico animale in grado di dare la caccia alla bestia che uccide
l’umanità dell’uomo, che moltiplica tutti i suoi vizi e la cui forza autodistruttrice
non è mai sazia, finché non ha ridotto l'essere umano alla sua stregua.
Su questa “profezia” si sono
scritti fiumi d’inchiostro, nell’intento di interpretarla, data la sua
oscurità, e si sono adombrate le più disparate soluzioni. In particolare, i
versi 102-105 hanno spinto i più raffinati ingegni a ricercare quale fosse il
personaggio che dovrebbe ricacciare nell’inferno l’avida lupa, liberata nel
mondo dall’invidia, figlia del diavolo perché capace di dividere.
“Questi non ciberà terra né
peltro, / ma sapienza, amore e virtude, / e sua nazion sarà tra feltro e
feltro”.
Secondo alcuni interpreti, il
riferimento al “feltro” indica l’umile origine del personaggio preconizzato, mentre
per altri, essendo quello un tessuto pregiato, presupporrebbe un’origine aristocratica.
Ad esempio, un imperatore, la cui “nazion” - intesa come paese di origine - non
potrebbe essere altri che le Fiandre, il paese dove al tempo di Dante si producevano più feltri. Ma quale imperatore? Oppure, si è ipotizzata l’appartenenza del
personaggio alla casata dei Da Montefeltro, per compiacere i Signori delle alte
Marche amici del poeta. Oppure, ancora, si è pensato che i versi indicassero un
personaggio da localizzare tra Feltre e il Montefeltro. Ma chi? I Della Scala?
Il lumen Italiae, Federico Da
Montefeltro? Quale preveggenza! Perché, allora, non usare le iniziali maiuscole? Insomma, una ipotesi
dietro l’altra, senza esito.
Forse, molto più
semplicemente, Dante non voleva profetizzare alcunchè, non potendo umanamente
andare oltre le parole di fra’ Cristoforo: “Verrà un giorno in cui…”. Ma ci ha
voluto dire che l’unica risposta all’avidità che nasce dall’invidia è la
cultura, l’istruzione, l’educazione, che nascono dall’insegnamento, dallo
studio, dalla formazione e dalla conoscenza, che liberano l’uomo dall’ignoranza
e dagli istinti più bassi e costruiscono l’etica personale e pubblica.
La cultura è l’unico strumento
per il riscatto “di quella umile Italia”, per la quale sono morti grandi ed
eroici personaggi. Essa non si nutre di possedimenti, né di ricchezze, ma di
amore per la conoscenza e di virtù, e le sue origini sono altrettanto umili,
perché nasce da un foglio di carta.
Saper leggere e scrivere,
usando quel mezzo umile che nasce tra due feltri e proviene dagli stracci, è
l’unico modo per fare giustizia fin nel più piccolo villaggio (“per ogne
villa”) del male italico più temibile e persistente.
Nel secolo della grande espansione in tutta Europa del mezzo per eccellenza della trasmissione
culturale, chissà che Dante non ci abbia voluto dire che non c’è riscatto senza
cultura e non c’è cultura senza quel modesto strumento di apprendimento che dal XIII secolo fino ad oggi resta alla base della formazione
dell’uomo.
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