ALLA RICOSTRUZIONE SERVE UNA CERTA IDEA D’EUROPA
Il workshop tenutosi lo scorso 8 marzo presso l’Istao sul tema della ricostruzione post-terremoto, in cui si è dibattuto di “cosa è stato fatto, cosa si deve fare, cosa si può fare”, è stato emblematico di un fatto.
La presenza dei vertici
istituzionali, il Commissario straordinario e il Presidente della Giunta
regionale, e l’ampio parterre di rappresentanze socioeconomiche coinvolte hanno
consentito, con i loro interventi, di avere uno spaccato abbastanza chiaro del
punto in cui ci troviamo.
E il punto è, da un lato, una
sorta di congelamento del pensiero delle classi dirigenti sulla ricostruzione
alle posizioni espresse nel periodo di poco successivo agli eventi sismici;
dall’altro, l’espressione di un volontarismo che non fa i conti con il fatto
che la gran parte delle scelte, almeno quelle connesse alla grande disponibilità
di risorse, è stata ormai consumata e ora si tratta di attuare bene quanto deciso.
Per quel che sarà possibile.
Infatti, come ha detto il
Commissario straordinario nelle conclusioni, la questione ormai - stante la
crescente difficoltà di ascolto a livello governativo e, aggiungiamo noi, il
tipo di politica economica che la destra sta portando avanti - è quella di passare
“dall’emergenza alla normalità”, con tutto ciò che ne consegue in termini di
superamento dei regimi straordinari di sostegno a famiglie e imprese, nonché
agli enti locali.
Il che rende difficile, per non
dire impossibile, esaudire le richieste reiterate dalle forze economiche di
forme di decontribuzione e defiscalizzazione mirate all’attrazione degli
investimenti, quando in realtà quelle esistenti stanno tramontando e di quelle
promesse non si vede l’ombra. Dovremo credo accontentarci di qualche pannicello
caldo in una qualche leggina sulla montagna.
Le posizioni degli intervenuti
hanno finito per oscillare tra la rappresentazione dello scoramento delle
popolazioni alle prese con lungaggini e burocrazia e il vagheggiamento di un
nuovo Rinascimento, che dovrebbe essere determinato dalle tante risorse in fase
di investimento e dall’impiego di tecnologie antisismiche e di sicurezza.
La sensazione più generale è
stata quella di una discussione in cui è prevalsa l’abitudinarietà delle
proposte, mentre nella realtà si è alle prese con tanti problemi pratici e
risorse pubbliche invariate.
Continuano ad esserci problemi
con le Soprintendenze, con lo smaltimento delle macerie, con la sicurezza dei
cantieri, con la ricettività dei lavoratori che non sanno dove alloggiare, con
la carenza di professionisti, manodopera e imprese, anche dopo la fine del
superbonus, e con l’aumento delle richieste di adeguamento del contributo di
ricostruzione, in cui è sempre più evidente lo sconfinamento nell’opportunismo
e nella speculazione. Tanto che ormai si dà per certo che almeno 20.000
progetti di ricostruzione su un totale di circa 80.000 non saranno presentati.
Un dato che da solo significherebbe il fallimento della ricostruzione.
Alla richiesta, emersa da più
parti, di un tavolo in cui affrontare problematiche micro e macro non è stata
data nessuna sponda, mentre si continuano a ripetere “visioni” su transizioni
gemelle, digitali ed ecologiche, offuscate da quella demografica che incombe su
tutte.
Persiste un’eccessiva
considerazione sul turismo come prospettiva economica di sviluppo del
territorio, legata ad una retorica sui borghi sempre più melensa e stantìa. Non
c’è nessun ragionamento sull’importanza che rivestono in ottica di neo-popolamento
i nuovi immigrati regolari che tornano, come dopo il 1997, a frequentare per
lavoro queste zone d’Appennino. Ci si sta accorgendo, ora, dopo le recenti
proteste, del ruolo cruciale che di fronte ai cambiamenti climatici assolve il
settore primario e del rilievo strategico del capitale naturale, che bisogna
proteggere da logiche speculative (ad esempio sulla risorsa idrica o
sull’insediamento di impianti di energia da fonte rinnovabile) e rendere
produttivo in maniera sostenibile (come nel caso della filiera bosco-legna,
delle produzioni agroalimentari e zootecniche o dei servizi ecosistemici).
Bisogna urgentemente
riequilibrare una visione, questa sì, dello sviluppo sostenibile dell’area
appenninica, che ha bisogno di un’economia fondamentale e plurale, costituita
da infrastrutture e reti a servizio innanzitutto di chi vive in queste zone,
dai settori primario e manifatturiero quali ambiti di investimento strategico,
da servizi e funzioni terziarie che per essere efficienti hanno bisogno di essere
aggregate e raggiungibili in tempi certi, oltreché organizzate sfruttando le
opportunità delle connessioni digitali. Insieme ad un bel piano di demolizioni
dell’orrendo, come è stato giustamente evidenziato.
Serve in altre parole un’idea
della Città Appenninica, del ruolo e della funzione rinnovata che le città
storiche dell’Appennino possono assolvere a vantaggio di territori sempre più
in difficoltà.
Dopotutto Next Appennino, prima
inserito nel PNRR, poi nel Piano nazionale complementare e ora scivolato fuori
anche da questo, non è stato altro dall’idea che il cratere sismico del Centro
Italia, così come le aree interne, abbiano bisogno di investimenti, quelli
inaugurati da un’Europa solidale dopo la pandemia e che un’Europa delle destre,
tutta rigurgito nazionalistico e corsa al riarmo, non è capace di prevedere.
La finestra post Covid che aveva
rimesso al centro i territori del margine si sta chiudendo; le politiche
sovraniste antieuropee, che nella migliore delle ipotesi pensano ad un’Europa
minima, sono fuori dal tempo e inadatte alle sfide del momento presente, che
richiedono invece grandi investimenti e grande solidarietà tra i partner
europei per affrontare i temi della competitività e della lotta alle
disuguaglianze sociali e territoriali. Il che è impossibile senza condividere a
livello comunitario debito per fare investimenti selettivi.
Le prossime elezioni europee
saranno decisive per capire la strada che vogliamo percorrere. Anche per quel
che è possibile ancora fare per la ricostruzione del Centro Italia e le aree
interne del Paese.
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