1545 - GLI ULTIMI GIORNI DEL RINASCIMENTO ... MARCHIGIANO



In un bel libro pubblicato nel 2008, alla vigilia dell’esplodere della grande crisi che ha messo fine all’illusione globalista, Antonio Forcellino ha magistralmente descritto “gli ultimi giorni del Rinascimento”.

L’anno è il 1545, quello in cui Tiziano, il più rinomato pittore del tempo, giunge a Roma per glorificare i Farnese con il Ritratto di Paolo III con i nipoti, nel momento in cui la famiglia più potente d’Italia è in preda ad una autentica crisi di nervi e si gioca il passaggio più delicato per la riuscita delle proprie ambizioni dinastiche.

Mentore del pittore è quel Giovanni Della Casa, che dopo le licenze giovanili, letterarie e non solo, si vede sempre più costretto dallo spirito del tempo e dal ruolo di nunzio apostolico a trasformarsi nel custode della censura teatina nella città più libera del mondo allora conosciuto, Venezia.

È l’anno in cui Michelangelo, reduce dalla realizzazione delle due statue per la tomba di Giulio II in San Pietro in Vincoli, tra cui l’enigmatica Vita attiva, termina La conversione di San Paolo e si accinge a dipingere La crocefissione di San Pietro, sempre nella cappella Paolina.

È l’anno in cui Giorgio Vasari si appresta a realizzare in tempi record le scene del Palazzo della Cancelleria, Omaggio delle nazioni al Papa e Il Papa portatore di pace, che segnano l’avvenuto giro di boa e il passaggio dalla grande arte rinascimentale alla maniera, alla pantomima retorica, in linea con i codici artistici e le nuove disposizioni della Riforma Cattolica.

Un momento capitale per la storia della cristianità, obbligata dalla Riforma protestante a rispondere cambiando se stessa, ma in quale direzione non è affatto chiaro; tant’è che ciascuno, artista o intellettuale che sia, deve “fare i conti giorno dopo giorno con la trasformazione rapida e drammatica del clima culturale italiano in concomitanza con l’apertura del Concilio di Trento e con la battaglia sempre più dura e crudele tra le fazioni progressiste e conservatrici del paese”.

Fazioni impersonate da Reginald Pole e Gian Pietro Carafa: il primo punto di riferimento dei sostenitori della necessità di una radicale riforma della Chiesa secondo il principio della giustificazione per sola fide, impegnati nell’arduo tentativo di raccogliere le istanze di cambiamento che venivano dalla società e di mantenere l’unità del mondo cristiano. Il secondo, futuro Papa Paolo IV, campione della conservazione e della repressione contro ogni presunta eresia attraverso il braccio armato dell’Inquisizione e il tribunale del Sant’Uffizio.

Proprio tra il 1545 e l’anno successivo si consumano lo strappo e la sconfitta dei progressisti, con l’abbandono del Concilio di Trento da parte di Pole alla vigilia del voto sul decreto de iustificazione.

Il Cinquecento è stato veramente il secolo dei giganti, in primo luogo dell’arte, “ubbidienti alla sola legge destinata a non trascorrere con le storie e le ideologie, la legge dello spirito e della libertà creativa”, che ormai la nuova temperie umiliava.

Un secolo a cui tanta attenzione è stata dedicata, ma che riserva continuamente nuove scoperte e che parla ancora al nostro tempo. Il secolo che ha dovuto fare i conti con un mondo improvvisamente allargatosi a dismisura, generatore di grandi ricchezze e disuguaglianze, e che ha cercato di rispondere a questa tramortente novità attraverso il ritorno alle origini per la via dei classici, facendo dell’immagine la proiezione più alta dell’arte, capace di rifare nuova ogni cosa grazie al potere della velocità nella trasmissione del suo messaggio.

“A volere che una repubblica o una setta viva lungamente, è necessario ritirarla spesso verso il suo principio”, aveva sentenziato Machiavelli e a questo doveva aver pensato anche il Duca morente, assistito al capezzale dai primi Cappuccini, con la popolazione dispersa nelle campagne per cercare riparo dalla peste e dai continui rivolgimenti cittadini.

Riunificare i rami della famiglia laddove si era consumata la prima rottura, quella tra i cugini Rodolfo IV e Giulio Cesare, suo padre. Mantenere l’autonomia della città, suo stato e ducato, attraverso il matrimonio di Giulia con il primogenito della discendenza ferrarese. Ritirare le cose al loro principio, dopo che l’ambìto riconoscimento del titolo ducale aveva consentito di fare tabula rasa del passato, anche attraverso il rogo dell’archivio della città.

Poi, il patto della ducissa con Francesco Maria della Rovere, che reclamava da tempo il titolo camerte, in nome della seconda rottura, quella che aveva contrapposto sua sorella Maria, ossia La Muta di Raffaello, e Sigismondo, figlio di lei e Venanzio, primogenito di Giulio Cesare, a Giovanni Maria. Onorare quel patto con il matrimonio tra Guidubaldo II e Giulia significava unire i due ducati di Camerino e Urbino, agire sulla scala territoriale di fronte ad un mondo che non consentiva più alle piccole realtà di sopravvivere, costruire un più solido potere sul versante adriatico, capace di arginare le altrui prepotenze.

Il venir meno della stella dei Papi medicei, che avevano ambito a costruire uno stato dell’Italia centrale, la reazione furente di Paolo III alla ricerca di spazi per soddisfare il proprio nepotismo e il mancato sostegno di Carlo V, avevano spezzato questo disegno. Un progetto tanto spregiudicato quanto fragile, fondato su un matrimonio che andava incoraggiato anche con la commissione di opere a quel prestigioso pittore veneziano, Tiziano appunto, come nel caso della Venere di Urbino e successivamente del ritratto alla giovane sposa.

Il bisogno di una riforma radicale della Chiesa cattolica serpeggiava in maniera affatto nascosta anche nelle Marche, se pensiamo alla nascita in questa regione del movimento cappuccino, al suo riconoscimento per il tramite della ducissa, nipote di Clemente VII, e alla stessa vicinanza della Cybo al movimento di rinnovamento spirituale che si raccoglieva intorno a Vittoria Colonna e Giulia Gonzaga, a Reginald Pole e Michelangelo Buonarroti. Ferentillo e Viterbo non sono poi così distanti.

Il tutto fino al quel 1545, che anche nelle Marche segna uno spartiacque. Le due “bicocche” di Camerino e Nepi cedute alla Chiesa in cambio di Parma e Piacenza, erette a ducato per Ottavio Farnese e Margherita d’Austria, ma in realtà per Pier Luigi Farnese, fratello a dir poco chiacchierato del Papa. È nel frangente di questo passaggio, che rischiava di far saltare tutti gli equilibri della penisola e i rapporti con l’imperatore, che Tiziano arriva a Roma disposto a ritrarre l’intera famiglia e anche le gatte…

Scompariva l’autonomia relativa di una città millenaria, protagonista della storia e della cultura dell’Italia centrale, ricompensata con il titolo onorifico di Capoluogo dell’Umbria, ma in realtà deprivata della sua funzione politica su un’ampia regione territoriale e chiamata essa stessa a concorrere al processo di uniformazione dello stato pontificio in una pur sempre piccola monarchia assolutistica. Toccava per prima a Camerino, sarebbero seguite via via altre, e pare che anche la Corona inglese si interessasse alle sue sorti.

Chi si rivolgeva a Tiziano al pari dei più grandi del tempo e dialogava con l’élite degli Spirituali vedeva oramai crescere intorno a sé la provincia che trovava nell’opera di Lorenzo Lotto freschezza e spontaneità creatrice. Due stili e due personalità agli antipodi, ma entrambe ben lontane dalla maniera. La crisi del primo Cinquecento meriterebbe nelle Marche nuovi studi, perché anche qui in quel 1545, anno fatidico, si consumavano gli ultimi giorni del Rinascimento. 

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