ALLA SCOPERTA…DELLE MARCHE




Il prossimo 27 maggio 2023 a Treia (Mc) presso la Sala convegni dell’Hotel Grimaldi sarà presentato l’ultimo libro di Gianni Compagnoni: “Abbazie delle Marche e altri luoghi di culto”, Tipografia S. Giuseppe, Pollenza (Mc) 2022. Di seguito la mia Presentazione al volume.


"Quando intorno al 1340 il frate domenicano milanese Galvano Fiamma riportò nella sua Cronica Universalis il nome Marckalada per indicare la terra “florida, intimidente e misteriosa” ad ovest della Groenlandia, della cui esistenza poteva sapere soltanto dai racconti orali di naviganti, non s’interrogò certo sulla familiarità linguistica di quel nome con quello della nostra regione, le Marche.

Furono con ogni probabilità i Genovesi a trasmettere quel che si narrava nell’estremo nord dell’Europa e che alcune saghe islandesi riportavano per iscritto, e cioè che intorno all’anno Mille gruppi di coloni vichinghi, provenienti dall’Islanda e dalla Groenlandia, avevano visitato le coste atlantiche dell’America del Nord in cerca di nuove terre dove insediarsi.

In questa impresa di non lunga durata, i luoghi raggiunti si mostravano sempre più vivibili man mano che si procedeva verso sud, per cui ad essi fu dato il nome di Helluland, “la terra delle pietre piatte”, Markland, “la terra dei boschi”, e Vinland, “la terra del vino”. È questo, forse, il più antico episodio di ciò che comunemente si chiama “la scoperta dell’America”.

“I marinai che percorrono i mari di Danimarca e di Norvegia dicono che oltre la Norvegia, verso settentrione, si trova l’Islanda. Più oltre c’è un’isola detta Groenlandia (terra anch’essa sconosciuta nel Trecento e che Fiamma descrive come talmente al nord che la Stella Polare rimane alle spalle… ndr); e ancora oltre, verso occidente, c’è una terra chiamata Marckalada. (…) Gli abitanti di questa terra sono dei giganti: lì si trovano edifici di pietre così grosse che nessun uomo sarebbe in grado di metterle in posa, se non grandissimi giganti. Lì crescono alberi verdi e vivono moltissimi animali e uccelli. Però nessun marinaio è mai riuscito a sapere con certezza notizie su questa terra e sulle sue caratteristiche”, così scrive il frate.

Ci piace pensare che la stessa cosa sia capitata a chi per primo ha dato alla nostra regione il nome di Marchia, Marca o Marche. L’origine nordica della parola è nota anche in questo caso (dal tedesco mark), ma con un significato diverso, quello di “confine” o “territorio al limite”, nel senso geografico e rispetto ad un dato ordine politico-istituzionale. La cosa, tra l’altro, dovrebbe essere avvenuta all’incirca nello stesso periodo in cui quei coloni vichinghi nominavano l’altra terra estrema, forse anch’essi intendendo con quel nome non solo l’essere ubertosa, ma anche appunto “al limite”.

Delle Marche si sono sottolineate in ogni circostanza, proprio a partire dal significato che è prevalso del nome, la marginalità, la perifericità, commista alla frammentarietà, associandole irreversibilmente a una presunta consustanziale pluralità. Definendo con ciò un carattere, un’identità, un “segno” (altro significato della radice mark) irriducibile. Eppure, molto più frequentemente e di primo acchito, le Marche hanno colpito chi le ha conosciute per la ricchezza della terra, la malìa struggente dei paesaggi dai monti al mare, la numerosità e diffusione delle comunità e dei segni dell’uomo. Era indubbiamente così in quell’evo medio che Franco Alessio ha magistralmente descritto come “l’età della terra” e che Gianni Compagnoni richiama in questo suo ultimo, intenso, viaggio d’arte, tra pietre e paesaggi.

Dice Alessio di quell’età: “…è una civiltà agraria. La terra è tutto. Tutto ne dipende. Per secoli, è la sola vera protagonista. Questo carattere rurale impronta e colora tutte le sue forme. Raffigurata come volta interamente al cielo, in realtà è anzitutto, e per lungo tratto di secoli è esclusivamente, una civiltà legata alla terra”.

Le Marche sono legate a questa epoca forse più di altre regioni che di essa conservano tracce ben più evidenti. L’hanno introiettata pienamente, ne rappresenta l’origine, anche laddove restano solo ruderi. Al punto che potremmo dire delle Marche moderne quel che Alessio dice dell’età di mezzo: “Essa vive, da cima a fondo, di insicurezze, ma tutte le sue garanzie e le sue certezze le invoca e le trova nel passato. Non importa che sia un passato reale, o immaginario. Solo ciò che ha sfidato la morte e il naufragio, che ha superato i tempi, che viene da lontano, offre garanzie e ha valore. Civiltà legata alla terra, rimane nel suo fondo un mondo attraversato di continuo da memorie, in cui si conserva, e sembra vivo, ciò che è scomparso”.

È alle tracce di questo mondo, dove isole di preghiera, lavoro, vita comunitaria, pascoli e coltivi, si stagliavano in mezzo a un mare di boschi e vegetazione (così Sergio Anselmi descriveva il medioevo marchigiano), che Compagnoni dedica il suo lavoro sulle abbazie. Dalla cui numerosità, diffusione, ubicazione, semplicità, ricchezza di opere d’arte, beni mobili e immobili, si può comprendere veramente perché le Marche e in particolare le sue terre alte d’Appennino rappresentano una sorta di “Tibet d’Italia”.

L’autore si muove alla scoperta di monumenti del passato, abbazie, chiese rurali, pievi, monasteri, conventi e santuari, e ce ne offre una rassegna molto rappresentativa, ritraendoli con la prediletta china e il tratto inconfondibile, sempre fedele all’oggetto e attento ai particolari. Non pago di ciò e per rafforzare l’invito al turista o al marchigiano distratto a fermarsi per ammirare, entrare, capire, Compagnoni si fa anche fotografo e guida turistica, arricchendo le sue perlustrazioni artistiche di apparati fotografici e schede con notizie storiche.

Ne vien fuori una collezione di architetture che solo dei giganti della religiosità, come sono stati i Marchigiani, potevano realizzare, in luoghi che oggi sembrano appartati e abbandonati, ma che evidentemente in passato erano al centro della vita civile, economica e religiosa, punti di riferimento per viandanti e pellegrini, microcosmi capaci di plasmare ampi territori intorno e di amministrare beni anche molto lontani ad essi affidati.

Insieme alle architetture emergono figure di grandi organizzatori della spiritualità, personalità di straordinaria forza, sapienza e capacità, autori di riforme più o meno riuscite del cattolicesimo, fondatori di nuovi movimenti e ordini religiosi. Pensiamo soltanto a San Romualdo, fondatore degli Avellaniti. Emergono generazioni di persone umili, che hanno trovato nella religiosità degli ultimi la risposta alle durezze della vita. Emergono schiere di artisti locali e non, autori di capolavori d’arte che soltanto la fede e la superstizione di comunità in eterna competizione tra loro sono state capaci di realizzare.

D’altra parte, quello delle abbazie, insieme a quello dei teatri, i quali recentemente sono stati sottoposti all’Unesco per il riconoscimento della loro molteplice unicità, può essere considerato il cluster culturale e turistico che le Marche possono vantare come una peculiarità, se non altro per la loro straordinaria disseminazione sul territorio.

Ma la rassegna artistica, fotografica e turistica di Compagnoni ha un altro pregio, quello di aver ritratto molti di questi austeri monumenti prima che il sisma del 2016/2017 li funestasse, lasciandoci quindi un rapporto meticoloso del loro stato di conservazione antecedente al dramma tellurico, insieme all’invito pressante ad intervenire per ricostruire, restaurare, ripristinare o per impedire la perdita definitiva di quanto resta. Un esempio per tutti, l’abbazia di Sant’Eustachio in Domòra presso San Severino Marche.

Anche da questo lavoro, infatti, risulta evidente come non tutte le Marche siano uguali e come in alcune zone la necessità d’intervenire sia stata nei secoli più frequente, consegnando ai posteri costruzioni stratificate, spesso molto diverse rispetto alle soluzioni originarie.

Infine, dalla passione che contraddistingue il viaggio di Compagnoni alla scoperta delle radici più profonde delle Marche ci pare di cogliere la voce dei luoghi che reclama per essi nuova vita, nuove frequentazioni, nuove attività al servizio del territorio, della sua manutenzione e valorizzazione, perché possano scrollarsi di dosso la secolare depressione che li imprigiona, l’opacità che si è impadronita dei loro scorci più belli, la tristezza che pervade tutto ciò che è in evidente abbandono, offrendo contemporaneamente all’uomo moderno un’occasione di riscatto dall’alienazione di un mondo truccato.

Tuttavia, lo sguardo dell’autore è sempre incline all’ottimismo. La sua ricerca pluridecennale, i lavori pregressi sui Borghi più belli, sui palazzi storici e nobiliari della città di Treia, ne sono testimonianza autentica. E anche questa volta, anzi in questa occasione più che nelle precedenti, il suo messaggio si rivolge al marchigiano, prima ancora che al turista, per dirgli di farsi instancabile scopritore della sua terra, che non si finisce mai di conoscere, né essa smette mai di stupire, di essere orgoglioso delle sue radici, di essere un attento erede del patrimonio che il passato gli ha consegnato e che deve saper tramandare alle generazioni future.

Perché, in fondo, l’America è qui, si chiami Markland o Marche poco importa."

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