NON CI SALVERA’ UNA DEROGA
In questi giorni da più parti si è espressa soddisfazione per il salvataggio delle classi nelle scuole del cratere sismico.
Un emendamento al Decreto Ricostruzione, in approvazione in Parlamento, dispone la deroga al numero minimo e massimo di alunni previsto per classe, per ciascun tipo e grado di scuola, nelle scuole del cratere sismico, fino all’anno 2028/2029.
Le numerose e ripetute richieste dei Sindaci sarebbero quindi state accolte, al punto che ci si spinge a ritenere che questa norma debba essere estesa a tutte le aree interne e montane, come misura necessaria per frenare lo spopolamento e incentivare chi se ne è andato a tornare.
Ma stanno veramente così le cose? E come mai il Ministro Valditara che, come suo primo atto dopo l’insediamento, è intervenuto sul dimensionamento degli istituti scolastici con un secco taglio delle dirigenze (portando da 600 a 900 il numero minimo di studenti per dirigente), si è dimostrato così aperto ad una soluzione che va nella direzione contraria?
Siamo di fronte ad un esempio di quella che Thomas Piketty ha chiamato “discriminazione positiva”? Vale a dire una scelta mossa da una logica meramente compensativa, che crea l’eccezione, ma non incide realmente sul “problema della disuguaglianza sistemica tra territori”, ossia sulle disuguaglianze che esistono tra chi ha l’opportunità di istruirsi in scuole di città e chi invece deve farlo in scuole con le pluriclassi e con un’offerta formativa e didattica molto diversa.
Il prossimo settembre sui banchi della scuola italiana non siederanno 127.000 studenti rispetto all’anno scorso. Considerando una media di 25 alunni per classe, si tratta di 4.800 classi in meno. È l’effetto del calo demografico che riguarda tutto il Paese. Secondo il Censis tra dieci anni mancheranno 1,4 milioni di studenti e si andrà avanti così fino al 2050, quando mancheranno in tutto due milioni di studenti. Un fenomeno che interesserà soprattutto le aree interne.
Di fronte a questa tendenza, la Legge di Bilancio appena approvata non interviene affatto sulle cosiddette “classi pollaio”, quelle con 28-30 alunni, presenti soprattutto nelle grandi città, bensì prevede un taglio di sedi e di organico per i prossimi anni, che avrà effetto a partire dal 2024-2025, e soprattutto già a partire dal 2023-2024 riduce del 30% i posti dei docenti che possono essere utilizzati per formare le classi in deroga, cioè per diminuire il numero degli alunni per classe nelle scuole disagiate o che si trovano nelle aree soggette a fenomeni di spopolamento e dispersione scolastica.
La volontà insita in queste scelte non è tanto quella di assecondare l’andamento demografico, come si è cercato di motivare, quanto quella di risparmiare sulla scuola. In questo contesto, la misura rivolta al cratere appare più come un dare tempo al tempo perché le cose facciano il loro corso, che un voler poggiare sulla scuola come effettiva leva del rilancio di un territorio ferito.
Se così fosse, altre sarebbero le scelte da fare: redistribuire spazi e personale dove esistono classi-pollaio, puntando su una didattica più personalizzata, e avere attenzione per le scuole delle aree disagiate, interne e montane, i cui criteri per la formazione delle classi non possono essere gli stessi delle aree urbane, ma che devono ugualmente rispondere a standard di qualità minimi omogenei. Ciò vorrebbe dire, da parte degli Amministratori locali e della Regione, assumere scelte coraggiose, individuando scuole e plessi capaci di servire un’area intercomunale, superando le pluriclassi e offrendo opportunità e servizi che soddisfino i ragazzi e le famiglie. Cosa che finora non si è voluta fare.
Si oppone a questo tipo di ragionamento il problema delle distanze e della difficoltà di mobilità, dovuto all’orografia del territorio. In realtà, così facendo, si stanno costringendo gli studenti di domani a dover percorrere distanze ancora più lunghe, spingendo anche le ultime famiglie rimaste ad abbandonare i luoghi di montagna. Le tante scuole di un tempo, disseminate nelle nostre campagne, sono lì a monito di quel che in passato è già successo. Non è valso come esempio neanche vederle abbandonate ogni volta che passiamo nelle nostre contrade. Quel che è certo è che non ci salverà una deroga, per quanto spalmata nel tempo.
Nella scuola come nella sanità, infatti, la riduzione delle disuguaglianze non ha tanto a che fare con deroghe e incentivi con cui si pensa di mantenere lo status quo, quanto con il dovere d’intervenire in profondità, riorganizzando il servizio che si intende offrire. Operazione complessa, per la quale c’è bisogno innanzitutto di una visione egualitaria e universalista, che ispiri una politica attenta ai luoghi; un ingrediente assente in chi ci governa, da Roma in giù.
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