LA GRANDE TRATTATIVA… “CAMERINI CIVES NOSTRI”
In un bel libro, finalmente
tradotto in italiano, l’archeologo e storico Nicola Terrenato propone una
suggestiva quanto verosimile interpretazione di quel periodo della storia
romana (IV-III sec. a.C.) che vide una delle tante città-stato del versante
tirrenico dell’Italia diventare la guida di un impero.
Portando a sostegno della propria
tesi in maniera convincente rivisitazioni storiche e testimonianze
archeologiche, l’autore in conclusione si chiede: “Roma fu un piccolo stato che
diffuse il proprio potere in tutte le direzioni, o fu piuttosto uno strumento
utilizzato da una grande varietà di élite della penisola per raggiungere i loro
scopi (…)? Roma conquistò l’Italia o fu l’Italia a conquistare Roma?” (pag.
267).
La tesi è che occorre superare una
lettura della storia di Roma fondata sull’imperialismo aggressivo o difensivo,
di carattere eminentemente militare, come gli storici romani ci hanno
tramandato in base a una visione a posteriori viziata di teleologismo e come la
storiografia moderna ha di fatto sostenuto sull’esempio della storia degli
stati-nazione.
È molto più probabile, invece, che
l’unificazione dell’Italia centrale, che costituì la base di appoggio della
successiva unificazione della penisola e della sua romanizzazione (II-I sec. a.
C.), nonché dello sviluppo dell’impero, non sia stata altro che una “grande
trattativa” (questo è infatti il titolo del libro) di cui furono protagoniste
le élite o casate dell’aristocrazia terriera, che detenevano il potere nelle
varie città-stato ed etnie, di fronte alle urgenze di un mondo che si era
improvvisamente dilatato.
Se sul finire del I millennio a.
C. si costituirono sulle alture le prime città-stato con funzioni difensive e di
tutela di ampi territori afferenti, soggetti a scorrerie e saccheggi da parte di
tribù confinanti, fu invece nel V-IV sec. a C. che nel Mediterraneo centrale nacque
la competizione tra città-stato che egemonizzavano i territori ad esse
limitrofi, dove i ritrovamenti archeologici hanno attestato la diffusione di fattorie
e luoghi di produzione di beni non solo di autoconsumo, come nel caso di
Siracusa, Cartagine, Tarquinia, Marsiglia.
Le casate aristocratiche che
fondavano il loro potere sul possesso della terra e sull’uso delle armi, che
intrecciavano tra loro relazioni di status, familiari, di ospitalità, mutua
protezione e interesse, e che erano a capo, seppure divise in diverse fazioni,
delle città in cui si raccoglieva l’etnia di appartenenza, entrarono
inevitabilmente nel gioco di questa nuova competizione, stringendo alleanze con
le città che ne furono protagoniste.
Il loro interesse, tuttavia, non era
di anteporre a tutto il bene della comunità o dell’etnia, bensì il proprio, per
aumentare potere e influenza in competizione con altre élite concorrenti e
affermare la propria egemonia nei contesti di origine e nelle relazioni con le
casate alleate. Fu in questa complessa dinamica competitiva e cooperativa che
si consumarono scontri e alleanze, conquiste e adesioni, tradimenti e
capovolgimenti di fronte.
Roma ebbe la meglio non per la
capacità militare di piegare chiunque resistesse alla sua espansione. In questo
modo avrebbe soltanto raccolto fatue vittorie e un brevissimo primato. Roma ebbe
la meglio perché seppe porsi a servizio della sfida più grande che si giocava
nella penisola italiana e nel Mediterraneo centrale e perché seppe farlo più
intelligentemente di altri, fino a diventare una “città senza soggetto”, capace
cioè di includere le diverse casate alleate, di renderle protagoniste delle
decisioni che a Roma si prendevano e di rispettarne il loro radicamento
territoriale.
In altre parole, gli scontri con
le comunità con le quali Roma arrivò a stringere alleanze furono pochi e avvennero
solo se strettamente necessari, ossia quando le casate locali alleate di Roma
necessitarono di aiuto per mantenere il loro controllo sulle città o quando ci fu
bisogno di pene esemplari a fronte di tradimenti delle alleanze stipulate. I
casi di Veio, Cerveteri, Capua, Arezzo e dei Sanniti dimostrano il diverso
spettro delle modalità di confronto tra Roma e i propri confinanti.
“Lo schema geografico
dell’espansione stessa - sostiene Terrenato - appare altamente significativo:
la conquista seguì un percorso opportunistico e di minor resistenza piuttosto
che una grande strategia militare: affrontò dapprima i potenti stati urbani di
pari livello, che erano quelli che disponevano di maggiori risorse, e solo in
seguito le comunità minori e poi quelle appenniniche e della Pianura padana,
con le quali invece vennero combattute le guerre principali” (p. 268).
“L’Italia romana - continua
l’autore - rimase a lungo un’alleanza di comunità locali, governate da èlite
terriere, disposte a raggiungere un compromesso negoziato con un centro
amministrativo in cambio dei benefici assicurati dall’impero. Non si trattava
né di uno stato-nazione, né di una satrapia: era uno spazio geografico e
culturale, già strettamente interconnesso prima ancora di venire unificato” (p.
269).
I benefici erano costituiti dalla
possibilità per le èlite d’inserirsi in un più vasto gioco politico con gli
effetti che questo determinava, di contribuire all’affermazione di Roma, di cui
erano divenute parte integrante e sostanziale, ma anche di proteggere e
accrescere le proprie comunità di origine, grazie ad esempio a quelle
infrastrutture (militari, stradali, giuridiche, economiche) che il centro
amministrativo, divenuto destinatario di maggiori risorse, poteva redistribuire
con interventi interstiziali rispettosi dell’autonomia delle comunità locali.
Autonomia testimoniata dalla continuità e persistenza di usi e costumi fino
alla romanizzazione successiva alla guerra sociale (I sec. a. C.).
L’interpretazione d’impianto
federativo di Terrenato, seppure non vada a ricercare a fondo le cause per cui
nel Mediterraneo centrale e sui territori si apre la fase della competizione globale
tra città-stato, è convincente perché appare più aderente alla storia lunga
dell’Italia, dei suoi caratteri perduranti e quasi consustanziali. Per certi
versi essa propone una “feudalizzazione” del passato preromano che con Roma
trova il suo punto di sintesi e di nuova statualità. Per altri, ci fa pensare a
molte dinamiche simili del mondo globalizzato di oggi e allo stesso processo
federalista europeo, che trova proprio nella concrezione degli stati-nazione un
formidabile ostacolo.
Il processo descritto nel libro
ha il suo scenario privilegiato nel versante tirrenico della penisola, dove
Roma si pose come punto d’incontro tra il mondo etrusco e quello greco,
giocando infine e vincendo lo scontro totale con Cartagine. I principali scogli
del processo di unificazione furono rappresentati dalle popolazioni
appenniniche del Sannio e dai Liguri, che cercarono di conservare non tanto la
propria autonomia, quanto le prerogative tradizionali delle proprie èlite. Nella
ricerca resta in ombra il versante adriatico, del quale viene ricordata soltanto
Camerino (pp. 201 e 260) come esempio di comunità urbana che stipula una
alleanza alla pari con Roma, sicuramente mediata da una casata aristocratica
detentrice contestualmente di un potere sulla città e di un accreditamento presso
i Romani.
“Camerini cives nostri oppidum
pulchrum habuere, agrum optimum atque pulcherrimum, rem fortunatissimam. Cum Romam veniebant prorsus
devertebantur pro hospitibus ad amicos suos”. Vengono in mente le parole di Catone
il Vecchio (190 a. C.) che Gerhard Radke ricordava nella sua conferenza del
1963 “Ricerche su Camerino città umbra” e che testimoniano quel rapporto tra èlite
aristocratiche alla base di alleanze risalenti e continuative nel tempo.
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