L’ASUR VA IN SOFFITTA, MA…
L’Asur va in soffitta, senza
rimpianti. A sua difesa non si sono levate voci, quasi fosse figlia di nessuno.
Eppure, ha segnato circa venti anni di vita del principale servizio pubblico a
gestione regionale, croce e delizia di tutte le amministrazioni che si sono
succedute.
Nata con la Legge regionale n.13
del 2003 fu la risposta pensata nella seconda legislatura D’Ambrosio per far
fronte all’esigenza di razionalizzazione del servizio sanitario, ripensandone
l’organizzazione. Ciò era richiesto da due fattori: l’eccessivo disavanzo del
sistema e la sua eccessiva frammentazione. Alla prima questione pensò una
robusta operazione finanziaria, che rivide al rialzo in maniera progressiva
l’aliquota Irpef regionale, alla seconda la nascita dell’Asur.
Il suo parto non fu facile,
contrassegnato da uno scontro duro tra l’amministrazione regionale e le forze
sindacali che lasciò ferite e divisioni nel centrosinistra di allora, chiudendo
di fatto la fase della concertazione inauguratasi a partire dalla metà degli
anni Novanta.
Sotto la spinta della riforma del
Titolo V della Costituzione, la necessità di riorganizzare un sistema frammentato
in tredici Aziende sanitarie locali (ASL), ognuna delle quali in competizione
con le altre e con ambizioni di autosufficienza nell’offerta dei servizi,
spinse gli amministratori a non replicare a livello provinciale la stessa
dinamica, ma a fare il “salto” verso un’organizzazione unitaria del servizio a
livello regionale.
Ciò avrebbe dovuto consentire una
visione regionale dei problemi dei singoli territori, perseguendo omogeneità, diversificazione,
adeguatezza e appropriatezza nell’offerta dei servizi ai cittadini; di
aggredire il deficit sanitario mediante un maggior controllo della spesa
sanitaria e di perequare una serie di elementi (spesa pro-capite, numero dei posti
letto, dotazioni di personale), affinchè non fossero troppo sbilanciati tra i diversi
ambiti territoriali, come in effetti era. L’articolazione dell’Asur in Aree
vaste provinciali, senza personalità giuridica, poi, avrebbe garantito il
raccordo con il territorio, attraverso le conferenze dei Sindaci, l’attenzione
alla distribuzione dei servizi fondamentali entro distanze compatibili e la
sostenibilità del rapporto tra spesa e offerta sanitaria.
Il varo dell’Azienda sanitaria
unica regionale (Asur), caso unico tra le Regioni a statuto ordinario, pose all’ordine
del giorno la possibilità/necessità di fare “sistema” in una regione come le
Marche, affetta da eccessivo campanilismo e ridotte dimensioni demografiche, specie
in un periodo in cui la razionalizzazione della spesa pubblica costituiva un
obiettivo generale a livello statale ed europeo. Non a caso, dopo l’Asur, seguirono
altri processi di regionalizzazione, come quelli che hanno riguardato le
politiche abitative e per il diritto allo studio, con la nascita dell’Erap e
dell’Erdis, e - sempre sulla stessa scia - l’impulso alla nascita della Camera
di Commercio delle Marche e del Confidi unico.
L’accusa frequente di essere uno
strumento centralistico ha rivelato il più delle volte la volontà di mantenere,
grazie alla frammentazione organizzativa, un presidio politico e di potere sulla
sanità che nulla aveva a che vedere con l’efficace ed equa distribuzione dei
servizi, a partire da quelli ospedalieri, o con l’importanza della sanità
territoriale, per capire la quale c’è voluto il ritorno delle pandemie, o dell’integrazione
sociosanitaria, sempre evocata ma poco praticata.
Per questo, nel deliberare la
soppressione dell’Asur ci si sarebbe aspettati un bilancio complessivo, un
rendiconto e una riflessione strutturata con tanto di dati ed obiettivi,
centrati o mancati, che avrebbero consigliato la strada migliore da intraprendere.
Niente di tutto ciò; ha preso il sopravvento l’ansia da discontinuità rispetto
ad una valutazione laica di quel che si sarebbe potuto fare per consentire
all’Asur di cogliere fino in fondo gli obiettivi giusti e ancora attuali per i
quali era nata.
Tutto ciò mentre i programmi di
edilizia sanitaria e l’attuazione del PNRR sanità delineano una prospettiva di nuove
costruzioni senza il necessario personale, la promessa del mantenimento di un
assetto “policentrico” degli ospedali rende difficile l’innovazione tecnologica,
delle competenze e di servizi evoluti, la mancata costituzione degli ospedali
unici tra Macerata e Civitanova e tra Ascoli e San Benedetto del Tronto portano
alla duplicazione di strutture, con aggravi finanziari e gestionali e serie minacce
ai fragili, ma essenziali, presidi sanitari dell’entroterra.
Più in generale, l’impressione è
che ci si stia avviando verso un assetto della sanità marchigiana non
sostenibile. Spetterà al nuovo Piano sociosanitario fugare queste
preoccupazioni, mettere ordine sul “chi fa cosa” e organizzare “uomini, mezzi e
capitali” per la sanità del terzo millennio.
Per chi è più affezionato alle
riforme che alle rivoluzioni è lecito coltivare più di un ragionevole dubbio.
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