LOTTA ALLE DISUGUAGLIANZE

 



Intervento tenuto a Macerata il 25 marzo 2022

Una lenta riemersione

Il tema della lotta alle disuguaglianze è tornato al centro del dibattito pubblico dopo un lungo periodo nel quale era scomparso dall’orizzonte delle problematiche politiche più urgenti. La sua riemersione ha richiesto tempo e non è stata per niente facile. Tuttora essa è fortemente insidiata. In primo luogo, dal fatto che di disuguaglianze si parla molto, ma si fa ben poco per combatterle seriamente; in secondo luogo, dal fatto che spesso chi ne parla oggi, fino a ieri le giustificava come ingrediente essenziale della crescita. Per cui anche nel seguire il dibattito bisogna essere molto vigili e critici.

Per chi come me si è affacciato alla politica militante nell’indimenticabile ’89, quello che oggi Putin sembra voler rimettere in discussione, il tema delle disuguaglianze non appariva come una priorità. La sinistra all’indomani della fine dell’Unione sovietica e del crollo del Muro di Berlino era impegnata a confrontarsi sull’idea di libertà, su come essa potesse essere interpretata da sinistra e su quale dovesse essere il rapporto della sinistra post-comunista con il pensiero liberale. L’egemonia neoliberista aveva avuto ragione sul “socialismo reale” e ciò consentiva a Francis Fukuyama, interprete di Alexandre Kojève, di dire che la storia era finita. Il mondo non andava più cambiato, tutt’al più ben amministrato e ciò equivaleva a consentire il pieno dispiegamento della logica di mercato.

Quando nel 1994 uscì l’illuminante libretto di Norberto Bobbio, “Destra e Sinistra”, chi si era confrontato sul senso da dare ad una “sinistra liberale” o alla suggestione gobettiana della “rivoluzione liberale” rimase un po’ interdetto nel leggere le parole dell’anziano filosofo, che ricordava come il valore ispiratore della sinistra, a differenza della destra, fosse l’uguaglianza. In pieno clima di critica all’egualitarismo statalista, in cui era sprofondato l’Est Europa, tenere il punto sul valore dell’eguaglianza non era affatto scontato. Tuttavia, il percorso della sinistra democratica negli anni Novanta fu obiettivamente e inevitabilmente influenzato dall’egemonia neoliberista e il tentativo di interpretare da sinistra i temi del mercato, dell’impresa, del dinamismo sociale portò ad apprezzabili elaborazioni non prive di risultati, ma anche a evidenti subalternità.

Con l’attacco alle Torri Gemelle del 2001 tutti capimmo che la fase per così dire “irenica” della globalizzazione, quella che sembrava aver assunto i tratti di una pacificazione mondiale sotto l’egida del mercato e che aveva contribuito all’uscita dalla povertà di milioni di persone, salvo acuire le disuguaglianze nelle aree del mondo non baciate dall’effetto benefico dei capitali liberamente circolanti, era finita. Essa cozzava contro un residuo che era cresciuto nei vari teatri di guerra, a partire da quello iracheno, e aveva assunto i tratti violenti del terrorismo fondamentalista di matrice islamista, arrivando a portare l’attacco nel cuore dell’Occidente.

Iniziava così la fase “conflittuale” della globalizzazione, con gli interventi militari in Iraq e Afghanistan, fino all’esplosione della grande crisi nel 2008-2009. A tal proposito voglio ricordare un episodio di cui fui diretto organizzatore in qualità di assessore provinciale alla formazione, lavoro e attività produttive della Provincia di Macerata. In occasione dell’assemblea di un’associazione che raggruppava gli amministratori locali delle comunità tessili europee, assemblea che ospitavamo nella nostra provincia, chiamai a parlare della crisi economica il prof. Roberto Schiattarella dell’Università degli Studi di Camerino. L’economista, allievo di Federico Caffè, diede una lettura delle cause della crisi finanziaria americana che sorprese i presenti, sostenendo che esse andavano individuate nei livelli di disuguaglianza raggiunti all’interno della società statunitense, dove la finanza aveva finito per avere una funzione sostitutiva del welfare, alimentando così la bolla dei mutui subprime, la cui esplosione aveva evidenziato l’incapacità delle famiglie di far fronte ai mutui che avevano contratto per acquistare la casa.

Questa lettura metteva in luce la perdita di potere d’acquisto dei salari e dei redditi da lavoro e parve ai più, incluso il sottoscritto, molto originale, di certo molto diversa da quella che veniva narrata nei consessi più o meno ufficiali per spiegare la crisi economica più grave dal 1929. È con la grande crisi, quindi, che prende il via una nuova interpretazione della globalizzazione con connotati più marcatamente critici. I movimenti antiglobalisti degli anni Novanta sono poco più di un ricordo. Si spezza la linearità e si rompe la pervasività dell’egemonia neoliberista, del “pensiero unico” o mainstream, del “non si può fare diversamente” o “non c’è alternativa” - come dice Fabrizio Barca - ed emergono analisi e proposte di segno diverso. Ritorna una “battaglia delle idee” tra economisti neoliberisti, sempre più in affanno nel giustificare quel che sta accadendo, e nuove voci che conquistano il campo, seppure le accademie, i centri studi, i ministeri, le grandi imprese e i luoghi della divulgazione del pensiero economico siano quasi interamente occupati da economisti formati alla scuola dell’ortodossia neoliberista.

Un nuovo pensiero economico e sociale

Sono economisti come Anthony B. Atkinson, che pubblica nel 2015 “Disuguaglianza. Che cosa si può fare”, come Paul Krugman e Joseph Stiglitz a proporre una lettura diversa della grande crisi e a rimettere al centro il tema delle disuguaglianze, anche sull'onda di movimenti come "Occupy Wall Street". Con l’uscita nel 2013 del libro “Il Capitale del XXI secolo” di Thomas Piketty si ha il primo studio organico e di ampio respiro sul tema delle disuguaglianze. Uno studio straordinario che fin dal titolo mette da parte ogni pudicizia: il “Capitale” era divenuta parola quasi impronunciabile, anzi si pensava che non esistesse proprio più, sapeva di vecchio e quindi era stato accantonato. Invece, il Capitale era vivo e vegeto, anzi era cresciuto a dismisura nell’accondiscendenza e distrazione di tutti o quasi. Lo sguardo globale dell’analisi di Piketty, la ricchezza dei dati e la modernità della loro raccolta, le tendenze delineate sulle basi analitiche disponibili, la forbice crescente dei divari tra salari e redditi da capitale e la crescita costante dei rendimenti da capitale, fino a prefigurare uno scenario simile a quello della fine della "Belle Époque" e dello scoppio della Prima guerra mondiale, la proposta di una tassa globale sul capitale, rendevano e rendono tuttora quell'opera una pietra miliare per qualsiasi approfondimento sul tema. Basta pensare agli ultimi due libri: “Capitale e Ideologia” (2020), dove a proposito del mondo post-comunista potremmo trovare delle utili indicazioni per comprendere quanto sta avvenendo oggi, e “Una breve storia dell’uguaglianza” (2021), dove il cammino storico globale della lotta per l’uguaglianza emerge nel suo tortuoso avanzare fino alla proposta di un neosocialismo partecipativo per il nuovo secolo.

Tra le figure più impegnate sul tema delle disuguaglianze non va dimenticato il Papa “venuto dalla fine del mondo”, che con l’Enciclica “Laudato Si’” e la sua “ecologia integrale” ha messo in evidenza il nesso tra degrado ambientale e disuguaglianze sociali, tra cura della casa comune, giustizia sociale e dignità umana. Un vero e proprio spiazzamento, il suo, per le forze politiche socialiste e socialdemocratiche europee, intente negli stessi anni a perseguire il rigore dell’austherity monetarista per far fronte alla crisi dei debiti sovrani, ignorando persino gli esempi di politiche espansive finalizzate al rilancio della crescita che venivano d’oltreoceano dall’amministrazione Obama.

In Italia il tema delle disuguaglianze è stato messo al centro della propria iniziativa pubblica da realtà associative come il Forum Disuguaglianze Diversità promosso da Fabrizio Barca, dall’Associazione Etica e Economia presieduta da Maurizio Franzini e, in maniera meno esclusiva, dall’Alleanza per lo Sviluppo Sostenibile (ASviS) promossa dall’attuale Ministro Enrico Giovannini. Del Forum DD merita di essere ricordata l’elaborazione delle “15 proposte per la giustizia sociale”, ispirate dal programma di azione di Anthony Atkinson. Queste esperienze italiane hanno avuto il merito scientifico di porre l’accento non tanto sulle politiche redistributive di contrasto alle disuguaglianze, quanto su quelle pre-distributive. Per capirci: le politiche redistributive sono politiche di tassazione o di trasferimento/spesa che intervengono ex-post, a valle della formazione della ricchezza e del reddito, per redistribuire redditi o ricchezza, mentre le politiche pre-distributive sono quelle che non intervengano a valle della formazione della ricchezza, bensì sui meccanismi di mercato, nel momento della formazione della ricchezza, o distribuzione primaria.

La grande crisi è stata per l’Italia un vero spartiacque: il nostro paese - insieme alla Grecia - ne ha subito maggiormente gli effetti in termini di perdita di PIL, riduzione della capacità produttiva e caduta degli investimenti pubblici, vedendo allo stesso tempo aumentare l’indice GINI che misura la disuguaglianza nella distribuzione del reddito tra la popolazione e la concentrazione della ricchezza nel decile più abbiente della stessa.

Tra l’Italia e l’Europa

L’Italia ha subito un impoverimento e si è periferizzata rispetto all’area germanica del continente, quella economicamente più forte e stabile, la quale si è ulteriormente avvantaggiata del processo “forzoso” di convergenza finanziaria delle aree più deboli del continente, attenuato soltanto dagli effetti della politica europea di coesione, che ha avuto per le aree più deboli un mero effetto sostitutivo della spesa per investimenti.

In questa terra di nessuno, mentre si aggravavano le disuguaglianze sociali, attecchivano e prosperavano le formazioni populiste e sovraniste, alter ego del volto tecnocratico dell’eurozona, e si consumavano eventi traumatici come la “lezione” data alla Grecia e la Brexit. E’ in queste circostanze che scoprivamo l’esistenza dei PIGS (Portogallo, Italia, Grecia e Spagna), i paesi del sud Europa, mediterranei e “indolenti”, per non dire “sfaticati”, ed emergevano i paesi “frugali” del nord Europa (Austria, Danimarca, Olanda, Svezia), mentre ad Est, grazie ai benefici effetti della vicinanza al cuore produttivo e industriale europeo, iniziava a far sentire la sua voce il gruppo di Visegrad (Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia)… L’Europa ha veramente passato un brutto quarto d’ora!

Se fosse continuata la politica di austherity il rischio della fine dell’euro e di una disarticolazione del progetto europeo sarebbe stato molto realistico. La stessa posizione unitaria e coesa che oggi l’Europa sta tenendo nei confronti della Russia, responsabile dell’aggressione all’Ucraina, sarebbe impensabile se non ci fosse stata la svolta nata dalla pandemia e che aveva avuto già un precedente nel whatever it takes di Mario Draghi. Allo stesso modo, possiamo dire con qualche barlume di certezza che non ci sarà una politica estera comune, una difesa comune, una politica energetica comune, se l’Europa non prenderà di petto la questione sociale, che è intimamente legata alla questione democratica, ovvero se le transizioni digitale, ecologica e demografica non verranno affrontate con un di più di equità e di giustizia sociale, se il Patto di stabilità e crescita, la materia degli aiuti di stato e la stessa politica di coesione non verranno profondamente riviste.

Combattere le disuguaglianze può essere oggi un preciso programma di crescita sostenibile e inclusiva. Da un punto di vista radicale, Fabrizio Barca in un recente libro-intervista (“Disuguaglianze Conflitto Sviluppo” 2021) ha parlato di classe, genere, ambiente, razza. Ridurre le disparità regionali e i divari territoriali, attraverso politiche di sviluppo rivolte ai luoghi; eliminare le diseguaglianze di genere e generazionali, attraverso la parità salariale, l’investimento sui servizi per l’infanzia e la cura, l’introduzione di un salario minimo e un’eredità universale per i giovani; ridare valore al lavoro, puntando sull’obbligo scolastico a 18 anni, sulla formazione e la piena occupazione; promuovere l’integrazione degli immigrati e riformare la cittadinanza nello spirito del ius soli, sono politiche che hanno un’incidenza diretta sulla crescita e possono contribuire a quel Patto per la crescita inclusiva e sostenibile di cui parlano Michele Salvati e Norberto Dilmore in “Liberalismo inclusivo” (2021).

Tutto ciò sarà possibile se la svolta rappresentata dal Next Generation EU, con la prima condivisione di debito comune da parte dei paesi membri dell’Unione Europea, avrà successo e un seguito, stabilizzando una politica pubblica europea per gli investimenti innovativi e un nuovo intervento pubblico nell’economia, necessario anche nello scenario di un ri-orientamento dei mercati di sbocco dell’export, di una spedita continentalizzazione delle filiere produttive e del sostegno al mercato interno; aspetti, questi, che discendono dalle conseguenze più immediate del conflitto russo-ucraino.

Alle Marche periferiche serve la politica

Nel quadro fin qui delineato, la nostra regione, le Marche, ha subito anch’essa un processo di periferizzazione, più forte e sensibile laddove si era già deboli e marginali. Quando oggi si parla di “meridionalizzazione” delle Marche, tema già presente nel dibattito di inizio anni Sessanta, quando la regione non intercettava la trasformazione industriale del resto del Paese, ci si riferisce sostanzialmente agli effetti di questo processo. Le Marche non sono una regione del Sud, se non altro per tre fattori: la base industriale e lo spirito d’intrapresa, i livelli di scolarizzazione e la dotazione complessiva infrastrutturale e di servizi. Sono, però, una regione in cui i redditi da lavoro sono in media più bassi rispetto alle altre regioni del Centro Italia e dove la percentuale di contratti precari, rispetto a quelli a tempo indeterminato, è eccessivamente alta.

Anche questi sono indicatori del nostro essere finiti nella cosiddetta “trappola dello sviluppo intermedio”, al pari di altre regioni del Centro Italia, come l’Umbria, o europee, che - come noi - hanno una storia industriale tutto sommato recente, costi di produzione più alti e un tasso di innovazione troppo basso. Il sisma del 2016/2017 è intervenuto nel processo di periferizzazione in atto ed ha rappresentato un vero e proprio “punto di rottura” tra le aree interne della regione e il resto della comunità marchigiana. Lo abbiamo potuto constatare nelle elezioni regionali del 2020, quando anche noi abbiamo conosciuto la “vendetta dei luoghi che non contano”, come l’ha definita Andrés Rodriguez-Pose, con riferimento alle zone rurali, alle aree de-industrializzate e alle periferie sub-urbane che con il loro voto avevano determinato la Brexit.

Senza rimettere al centro la questione dei divari territoriali, della dotazione di servizi, delle opportunità lavorative e di sviluppo in aree dove viverci equivale a dover fare i conti con diritti di cittadinanza menomati, non sarà facile per le forze democratiche e progressiste riguadagnare il governo delle Marche, ma soprattutto non sarà possibile rilanciare la crescita stessa delle Marche, che qui - come altrove - dipende dall’inserire nel circuito dello sviluppo sostenibile le zone che più sono rimaste ai margini, favorirne la convergenza con quelle più sviluppate e non soltanto puntare su quelle il cui sviluppo ha già manifestato limiti obiettivi e una produzione squilibrata della ricchezza.

È quello che ha cercato di fare fin dal 2012 e poi operativamente dal 2014 al 2020 la programmazione europea che ha finanziato la Strategia nazionale delle aree interne (SNAI), promossa dall’allora ministro Fabrizio Barca, che in piena retorica sul neo-urbanesimo delle megalopoli mondiali ha tematizzato invece le potenzialità inespresse e il deficit democratico che riguardano i luoghi dell’abbandono e coloro che li abitano, i cui diritti di cittadinanza non sono soddisfatti come la nostra Costituzione prevede. Proprio sull'attuazione dell'art. 3 della nostra Carta invito a leggere il recente libro di Ernesto Maria Ruffini "Uguali per Costituzione" (2022).

In questa direzione è andato anche il lavoro che i Democratici americani hanno fatto per recuperare parte dei consensi dell’America profonda, decisivo serbatoio di voto del trumpismo, e per tornare a vincere. Ed è quel che ancora oggi i leader europei più riluttanti nei confronti della lotta alle disuguaglianze sono costretti a fare per impedire che vincano partiti populisti o sovranisti.

Per conseguire l’obiettivo di uno sviluppo più equilibrato, le Marche oggi hanno a disposizione le opportunità del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) e, nello specifico delle aree del cratere sismico, quelle del Programma unitario degli interventi per le aree dei terremoti del 2009 e del 2016 a valere sul Piano nazionale complementare (PNC). Una sfida che rappresenta anche il primo tentativo organico di accompagnare la ricostruzione fisica di un’area vasta interregionale appenninica, colpita da catastrofe naturale e già precedentemente afflitta da un declino di medio periodo, nonché dagli effetti del processo di periferizzazione richiamato, con la ricostruzione economica e sociale. Sarà interessante capire quali risultati attesi saranno conseguiti al termine di questo esperimento che metodologicamente si spera possa essere codificato in termini legislativi, amministrativi e organizzativi.

Sisma, pandemia, guerra sono fenomeni che distruggono ricchezza, ma anche formidabili acceleratori di processi e di disuguaglianze. Chi ha molto può perdere molto, ma chi ha poco può perdere tutto. Di fronte a questi eventi che distruggono vite, beni comuni, personali e affettivi, relazioni e comunità, lavoro e prospettive di futuro, e di fronte a ricchezze che continuano ad accumularsi in poche mani, libere di muoversi per il mondo (e ora anche nello spazio), custodite nei paradisi fiscali e intolleranti ad ogni chiamata in correo nell’alleviare le difficoltà dei più, è indispensabile che la politica torni a svolgere il suo ruolo, in autonomia, in modo organizzato e partecipativo, con capacità di analisi e di proposta, per dare certezze e riferimenti al consolidamento di una prospettiva in cui un nuovo intervento pubblico può garantire e rassicurare, promuovere e facilitare, ridurre le disuguaglianze e costruire la pace. A me pare che sia questo il compito del tempo presente.


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