IL RITORNO DELLA MONTAGNA
Si torna a farlo nell’anno che l’ONU ha proclamato “Anno internazionale delle Aree interne e della montagna” e dopo che la pandemia ha ridestato l’attenzione sui luoghi del distanziamento fisico ma non sociale, sugli spazi aperti e il contatto con la natura, sulle comunità dove vigono le reti corte e di prossimità.
Finita nel dimenticatoio all’indomani della legge suddetta, che era nata sottofinanziata rispetto alle ambizioni dell’articolato normativo e ben presto superata dalla riforma del Titolo V, la quale ha di fatto “regionalizzato” la materia, la montagna ha dovuto subire nel primo decennio del nuovo secolo il totale definanziamento in nome della centralizzazione e del taglio della spesa pubblica.
C’è voluto il nuovo investimento dell’Unione europea sulle aree non urbane (rurali, interne e montane), confluito poi nella programmazione 2014-2020 e riconfermato in quella 2021-2027, per riaccendere i riflettori sul tema dei divari territoriali e sulla questione delle disuguaglianze in termini di diritti di cittadinanza per chi vive in determinati luoghi.
È nata così la Strategia nazionale delle Aree interne (SNAI) che, facendo leva sul soddisfacimento dei diritti di cittadinanza a prescindere da dove si abita, ha riabilitato anche le zone montane, nella misura in cui viverci implica una distanza dall’offerta più prossima di servizi essenziali (sanità, scuola, mobilità) e la necessità di fare i conti ogni giorno con una serie di ostacoli “che impediscono il pieno sviluppo della persona”, come recita l’art. 3 della Costituzione.
La SNAI riteneva, in questo modo, di aver superato l’eterna querelle sulle definizioni, ossia a quale altitudine finisse la collina e cominciasse la montagna. Dal canto suo, invece, il disegno di legge approvato dal Consiglio dei Ministri parla di una Strategia nazionale per la Montagna italiana (SNAMI). Si potrebbe eccepire non senza ragione sull’abbondanza di “Strategie”, mentre attendiamo ancora che la SNAI diventi un’effettiva politica nazionale di riduzione dei divari territoriali, e non solo la sperimentazione di 72 aree pilota, o che la Strategia delle Green Communities, prevista dall’art. 72 della L. n. 221/2015, prenda forma, oppure che la L. n. 158/2017 sui Piccoli Comuni sia finalmente operativa.
Stiamo parlando di tutte iniziative con finalità ampiamente convergenti e finanziate o dal PNRR/PNC (la SNAI con 1,130 mld e le Green Communities con 140 mln) o da risorse nazionali (i Piccoli Comuni con 160 mln), che per evitare sovrapposizioni e dispersioni avrebbero bisogno di essere coordinate secondo una “Agenda per lo sviluppo sostenibile delle aree interne e montane”, come proposto recentemente dall’Alleanza per lo Sviluppo Sostenibile (ASviS), e attuate da una governance multilivello che abbia un chiaro ancoraggio territoriale.
Il disegno di legge, ora all’attenzione del Parlamento, istituisce il Fondo per lo sviluppo delle montagne italiane (FOSMIT), nel quale confluiscono le poche risorse del Fondo nazionale per la montagna e del Fondo integrativo per i Comuni montani, con una dotazione di 100 mln per il 2022 e 200 mln dal 2023. Risorse già disponibili con la Legge di Bilancio per l’anno corrente che vanno ad aggiungersi a quelle sopra menzionate.
Gli interventi riguardano in particolare la sanità e le scuole di montagna, con specifiche agevolazioni per medici e professori che scelgono di lavorare in Comuni montani; i servizi di telefonia mobile e l’accesso a internet, per superare il digital divide; gli imprenditori agricoli e forestali, che possono usufruire di crediti d’imposta del 10% del valore degli investimenti sostenibili effettuati dal 2022 al 2025; le imprese montane “giovani”, il cui titolare under 36 può contare su misure fiscali di vantaggio; l’acquisto con mutuo della prima casa in un Comune con meno di duemila abitanti da parte di under 41, per cui si prevedono detrazioni.
Di fronte a queste misure rivolte a contenere lo spopolamento, il governatore del Veneto ha esultato ritenendole utili nel cammino verso Milano-Cortina 2026. È proprio vero che la montagna non è tutta uguale! Ci pare più interessante il recente richiamo della Commissione europea a rafforzare “alcune città più piccole” che “forniscono accesso a un’ampia gamma di servizi pubblici e privati” per le zone rurali, interne e montane. Essi, infatti, svolgono il “ruolo di centri regionali” a tutti gli effetti e “consolidarne il ruolo potrebbe spronare lo sviluppo economico e migliorare la qualità della vita”.
Non stiamo parlando di borghi, ma di alcune città dell’Appennino che hanno svolto nei secoli una funzione essenziale. Ad esempio, quando nel XVIII secolo Ottavio Turchi scrisse il Camerinum sacrum non poteva pensare che a distanza di 260 anni quel titolo fosse attualissimo, ma con un significato tutto laico. L’unica città montana (661 m. slm) delle Marche che ancora assolve a funzioni territoriali di pregio andrebbe presa a termometro dello stato di salute dell’intera montagna regionale e come cartina di tornasole della qualità dei servizi e dell’efficacia delle politiche di sviluppo nella provincia più montuosa, al netto degli effetti del sisma e del processo di ricostruzione in atto.
Allora potrebbe cominciare ad assumere un qualche senso quel voler riscrivere il patto tra territori urbani e aree interne e montane di cui si sente spesso parlare.
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