“EPPURE…NOI SIAMO UNA SOLA COSA” - Ricordo del Cinquantesimo della pubblicazione degli Xenia di S. Severino Marche



Quando cinque anni fa, precisamente il 22 ottobre del 2016, s’inaugurava la mostra “Amare un’ombra. Omaggio a Montale poeta e pittore. A cinquant’anni dalla pubblicazione degli Xenia di San Severino Marche”, prima con un evento presso il Teatro Feronia e poi alla Pinacoteca civica di Palazzo Manuzzini, non potevamo pensare che di lì a qualche giorno le Marche sarebbero entrate nel tunnel del sisma e poi in quello della pandemia, che ancora imperversa.

L’articolato programma di iniziative che doveva ruotare intorno ai concetti di dono e ospitalità, in onore a quei “doni lasciati ad un ospite nel suo accomiatarsi”, veniva inevitabilmente stravolto e solo grazie alla tenacia di Donella Bellabarba, ideatrice e mecenate del Cinquantesimo, se ne sarebbe recuperata buona parte. In quei giorni le parole dono e ospitalità diventavano pratica emergenziale e straordinaria, messa in atto dalle reti corte e di prossimità, ma anche da quelle più lunghe della Protezione civile e del mondo del volontariato non solo nazionale, che per lungo tempo hanno continuato ad agire a favore delle popolazioni del Centro Italia in maniera eccezionale e commovente.

Eravamo tutti diventati delle ombre, nonostante il clamore mediatico dell’evento tremendo che ci aveva investiti; “Ma è possibile, lo sai, amare un’ombra, ombre noi stessi” (EM Xenia n. 13). Ancor più ombre siamo diventati con la pandemia, mentre la voce solidarietà ha fatto il suo salto di specie, dal territorio allo scenario planetario, senza sapere però se avrà al fine la meglio.

Gli interventi erano volati alti all’interno del Feronia, sotto la regia di Francesco Rapaccioni. Il prof. Roberto Cresti, affabulatore perfetto di quell’intreccio tra poesia e pittura, di poeti che pitturano, disegnano, incidono, e pittori che poetano, scrivono, argomentano, mostrava le affinità tra Montale e Gino Bonichi, in arte Scipione, un altro marchigiano sulla strada del Nobel; il prof. Pietro Gibellini, grande indagatore della poesia montaliana e in particolare degli Xenia, si immergeva in quel linguaggio in apparenza dimesso e quotidiano portando in superficie non solo e tanto i riferimenti all’opera lirica, altra grande passione di Montale [come nel caso della “Strana pietà… (Azucena atto secondo)” EM Xenia n.7], ma alla Bibbia, la cui lettura accomunava il poeta e la “Mosca”; infine, il prof. Giuseppe Bonelli ribaltava il punto di vista, costringendo il numeroso pubblico a mettere gli occhiali un po’ scuri e spessi di Giorgio Zampa, per scandagliare la sua venerazione per Eusebio, l’amarezza per le incomprensioni e l’estrema severità verso sé stesso.

Che cosa spinse un intellettuale come Zampa a far stampare gli Xenia a San Severino Marche, in una tipografia di provincia? A Zampa non sfuggiva affatto l’“importanza dell’operazione”. La pubblicazione di una raccolta di poesie di un poeta del calibro di Montale, non era certo cosa da poco. Inoltre, ciò accadeva dopo dieci anni di silenzio poetico. Questo tipo di operazioni aveva le sue regole, di merito e di opportunità, e dopotutto Zampa avrebbe potuto farla stampare in una qualsiasi tipografia di Milano; di certo non gli mancavano conoscenze in tal senso. Sì, è vero, stava per partire per le Marche, si ricordava di una tipografia che faceva buoni lavori… Ma, voglio dire, perché scelse San Severino Marche, la sua città di origine?

Prevalse in lui il legame con il territorio di appartenenza, agì quel vincolo territoriale che contraddistingue persino il marchigiano più evoluto, quello che cerca con ogni sforzo di guadagnare la scena più alta e per questo si proietta giustamente altrove, volendo realizzarsi pienamente.

La “mediazione da niente” di Giorgio Zampa sa di quel figlio che si presenta alla propria madre e ogni volta spera di essere apprezzato per ciò che di buono ha fatto, invano. Le Marche sono questa madre severa e avara di riconoscimenti, per amore della quale anche chi la lascia è spinto al fine a tornare, perché è soltanto da lei che può venire l’approvazione più intima e vera che la propria vita non è stata spesa inutilmente.

“E’ la parte di me che riesce a sopravvivere/del nulla ch’era in me, del tutto ch’eri/tu, inconsapevole” (EM, Diario del ’71 e del’72).

Le Marche del 1966 erano una regione che stava cambiando pelle. L’antica tradizione urbana delle manifatture, come quella della Tipografia Bellabarba, tramandata da più generazioni, mutava forma e fruttificava nella nascita dei distretti industriali, contadini che diventavano operai, operai e gente di mestiere che si mettevano in proprio come piccoli artigiani, piccole imprese che nascevano come funghi nell’Italia del boom economico e del decentramento produttivo, a cui non era estranea l’influenza della grande impresa pubblica.

Le Marche, terra artigiana, per sua natura servente, si dimostrava anche allora - nonostante il ricco sviluppo - incapace di leadership, di spiccare il volo, di librarsi nel cielo più alto dell’aristocrazia politica, economica e culturale, dove non si guarda mai alla provenienza, ma si giudica soltanto quel che si porta in dote. Quell’ancoraggio territoriale sembrava impedire anche ai suoi figli migliori il definitivo abbandono di una cultura di periferia, percepita come provinciale, non sempre a ragione.

Il paesaggio ligure rivive trasfigurato nell’opera universale di uno dei più grandi poeti del Novecento, mentre il paesaggio marchigiano continua ad essere per ogni artista di questa terra la trasposizione vivente e irriducibile dell’opera d’arte, con la quale non si finisce mai di confrontarsi, rimanendovi in qualche modo invischiati. Eccezion fatta, forse, per Leopardi.

Così l’arte incorpora sempre qualcosa di artigiano, e tuttavia resta anche per il marchigiano preso dalla sua religione del lavoro “la forma di vita di chi pienamente non vive”.

All’evento del Feronia e all’inaugurazione della mostra che, in un allestimento sobrio e minimalista ideato da Luca Cristini, esponeva i 14 Xenia, con tanto di correzione bozze e prove di stampa, insieme a quadri, disegni, schizzi del poeta, per la gentile concessione di Alda Minocchi e Giovanna Zampa, si aggiungeva nello stesso contesto la mostra di Paolo Gobbi “Pagine per Montale”. Seguirono alcuni degli eventi programmati; in particolare l’incontro all’ex Cinema Italia con Roberto Mancini e Serge Latouche, l’economista teorico della decrescita, quindi l’evento maceratese presso la Sala Castiglioni della Biblioteca Mozzi-Borgetti con Maurizio Verdenelli e Guido Garufi, infine la serata con Ezio Bartocci sul Martin Pescatore, l’incisione di Luigi Bartolini prediletta da Montale.

L’“opuscolo da parroco di campagna”, che doveva essere spoglio come la morte perché emergesse con il maggior nitore possibile la sporgenza della poesia donata, riceveva così un’inedita quanto giusta valorizzazione della sua preziosa rarità spirituale e materiale. “La raccolta voleva essere un tributo funebre, un omaggio discreto a una presenza che a tratti diventava memoria con una lacerante, inaccettabile e insieme ferma consapevolezza”, scriveva Zampa. Un tributo al tributo, un omaggio all’omaggio.

Un’occasione, tra l’altro, capace di mettere in evidenza come gli uomini d’arte vissuti in momenti storici cruciali, come quel 1939 in cui Montale iniziò a dipingere, abbiano sempre cercato di imitare l’uomo rinascimentale, di abbracciare la pienezza poliedrica dell’espressione artistica (poesia, pittura, musica, canto, …) quasi da essa dipendesse la possibilità stessa del riscatto umano, oltre che la propria personale realizzazione e liberazione.

E quando le occasioni avevano smesso di rappresentare dei possibili varchi verso la pienezza della vita, e la morte si era fatta strada nei legami più intimi, tra l’apparire e il nulla soltanto la poesia rimaneva, per rendere presente l’assenza o come “fischio” per l’al di là. Sempre che il poeta restasse disposto ad accoglierla, proprio come un dono o un ospite imprevisto: “Io non vado alla ricerca della poesia, attendo di esserne visitato”.

Che cosa resta, al dunque? Un catalogo prestigioso come pochi: “Le linee della mano. Dipinti, schizzi, parole di Eugenio Montale”, a cura di Roberto Cresti; la scoperta di inediti da collezioni private; la lezione sul valore dello scambio inteso come relazione di senso. Quello che viviamo nel territorio come insieme di relazioni e nelle comunità da ricostruire, dopo il sisma e la pandemia, come luoghi privilegiati dell’umana condivisione.

E un compito: nel centenario della nascita di Giorgio Zampa è tempo che la sua eredità culturale possa essere condivisa con la città verso la quale ha mantenuto sempre uno speciale attaccamento, come la vicenda della pubblicazione degli Xenia dimostra. “Eppure non mi dà riposo/sapere che in uno o in due noi siamo una sola cosa” (EM Xenia n.14).

Grazie, dunque, all’Archivio storico Bellabarba, archivio d’impresa e memoria di un pezzo di storia luminosa della città di San Severino Marche.


Commenti

Post popolari in questo blog

UNA ZES PER LE REGIONI IN TRANSIZIONE

UNA CARTOLINA DA CAMERINO FUTURA

OTTO ANNI DAL SISMA: SERVE UN’OPERAZIONE VERITA’ E UNA NUOVA POLITICA PER LE AREE INTERNE