Noterelle paesologiche sul libro “La post Regione” di Daniele Salvi - di Carlo Magnani*



Il “noi” difficile dei marchigiani

Il libro di Daniele Salvi è un libro doppiamente marchigiano, in primo luogo, per il fatto evidente che il suo oggetto sono le Marche, e, in secondo luogo, per la metodologia e lo stile impiegato dall’autore. L’approccio marchigiano alle cose significa l’impiego di un criterio di giudizio moderato e razionale, senza enfasi, senza esagerazioni, che evita ostentazioni o iperboli, per preferire un rapporto modesto, persino moderato anche quando tratta temi radicali. Il marchigiano, in verità, sembra quasi volere togliere più che aggiungere. Alcuni passaggi del testo confermano questa impressione e descrivono bene questa mitezza marchigiana. Citiamo direttamente dal testo. “La felicità per i marchigiani è uno stato di benessere e di appagamento che nasce dall’aver fatto ciò che si deve, con fatica e paziente tenacia, e dallo stare in tranquillità, non tanto dall’aver ottenuto un agognato di più. Questa è forse la ragione delle tante volte richiamata ‘medietà’ marchigiana, quel farsi bastare ciò che si ha, quel non osare più di tanto e non cercare per principio il primato. I progetti, le smanie di gloria, i marchigiani amano coltivarli quasi in ‘religioso’ silenzio, in segreta solitudine o tutt’al più nell’alveo rassicurante della famiglia” (p. 66).  Del resto, il padre della paesologia, Franco Arminio, visitando la nostra Regione ha scritto che se la Calabria è un reparto di terapia d’urgenza le Marche sono una lungo degenza. Il quadro tiene.

Questo libro, quindi, è innanzitutto una preziosa occasione per riflettere sulla marchigianità, che non è detto che consista necessariamente in qualcosa da trovare, in un oggetto bello e pronto. Le Marche, come ogni comunità, più che un destino sono un progetto di ricerca comune. Le Marche plurali si fanno mentre cercano sé stesse. L’identità più vera, magari, la si rinviene inciampando in essa, persino incontrandola quasi per caso, ce la si trova di fronte e la si deve constatare. Le Marche sono una piccola Regione che è facile associare a grandi personaggi della storia nazionale e non solo, Raffaello, Leopardi, Rossini, per citare solo i più illustri, ma che è difficile individuare in una comunità concreta. Tale difficoltà la si vede anche dai tentativi di promozione pubblicitaria del nostro territorio, affidati quasi sempre a notissimi soggetti del mondo dello spettacolo o dello sport che però hanno un piccolo difetto: non sono quasi marchigiani, o se hanno dei legami vivono comunque lontano. Una Regione con grandi nomi e tante piccole comunità che spesso non si conoscono o, peggio, nemmeno si riconoscono l’una con l’altra.

Provenendo dalle ‘Alte Marche’ posso testimoniare questa problematica. Non c’è solo la spaccatura orizzontale tra aree interne e costa, ma anche quella verticale tra nord e sud della Regione. Forse è solo nella porzione tra Senigallia ed Ancona che si realizza l’incontro tra la ‘Marca Sporca’ e quella che sta sopra.

 

Il puzzle del globalismo: tante cose per una sola Regione

 

Questo tema della identità non è però oggetto diretto della ricerca di Salvi, se non nella misura in cui entra in relazione con l’insieme di talune grandi aree tematiche che interessano il futuro della Regione. Vediamo cosa c’è concretamente nel testo.

Il libro segue a mio avviso tre grandi linee: il ragionamento socioeconomico sulla Regione, con riguardo alle grandi questioni politiche del nostro tempo; il richiamo a personaggi e a beni del patrimonio culturali locali, tra Camerino e Macerata; le politiche e le strategie per le aree interne.

In primo luogo, possiamo così trovare riferimenti a Papa Francesco, con cui inizia il libro e che è oggetto di un altro paio di interventi, oppure a Parigi vittima degli attentati, sino alla crisi ambientale e ovviamente alla pandemia, non mancano neppure Berlinguer o Corbyn.

In secondo luogo, vengono approfondite le figure di Mattei, Fuà, Olivetti, del poeta Massimo Ferretti, ma anche Giuseppe Belli politico di Tolentino o Alessandra Gariboldi impegnata tra Otto e Novecento nella promozione della emancipazione femminile. Poi si passeggia anche nel tempo, incontrando Machiavelli che opera nel Centro Italia, Giulia da Varano che torna a Camerino o l’Anno Domini 1259 a memoria dei disastri naturali. Inoltre, abbiamo un elenco di beni del patrimonio culturale da valorizzare come “la scacchiera di San Zenone” di Gagliole e il convento di Renacavata, o la Chiesa della Madonna del Sasso, con un Giudizio universale conteso e di assoluto pregio per la ricerca storico-artistica.

In terzo luogo, numerosi contributi rimandano alle politiche territoriali che interessano le Marche e soprattutto le aree interne appenniniche, tanto i borghi che i contesti agricoli.

All’apparenza potrebbe sembrare un insieme troppo eterogeneo per poter essere tenuto assieme: un puzzle con tessere così variopinte e di forme assai differenti che difficilmente possono presentare un quadro unitario e chiaramente intellegibile. Questo è certamente un rischio presente nel testo, ma prima ancora è però un segno oggettivo della difficoltà del presente momento storico, di cui Salvi prova a rendere conto. Nell’epoca del globalismo c’è uno scambio continuo tra dimensione locale e internazionale, ed anche i fatti o i simboli sono destinati ad intercambiarsi e ad assumere significati plurimi. Un bene del patrimonio culturale locale, ad esempio, grazie ad una campagna di informazione fortunata o a testimonianze affidate ai social può benissimo convertirsi in oggetto di interesse nazionale o anche oltre. Insomma, a modo suo, cioè attraverso il proprio punto di vista particolare e i suoi interessi, Salvi testimonia un possibile percorso di tematizzazione delle Marche nell’età complessa e globale che stiamo vivendo. Da Papa Francesco alla chiesetta della frazione di Serravalle del Chienti il testo suggerisce dei collegamenti (link, si potrebbe dire) che il lettore può utilizzare a piacimento.

 

La Regione delle tre crisi. Ancora “le magnifiche sorti e progressive”?

 

Queste aree di ricerca sono osservate in un’ottica dinamica che si sviluppa nell’arco di cinque anni, dal luglio 2015 all’agosto 2020, quindi incrociano in maniera significativa, arricchendosene, delle problematiche emergenti da due eventi fondanti: prima il sisma, poi il coronavirus. Anche se, a mio avviso, l’autore mette giustamente alle spalle di queste due emergenze un processo, un poco più risalente, che ha condizionato profondamente la vita sociale, e anche la risposta alle due calamità, cioè la crisi economica del 2008-12.

Tale evento, a differenza del sisma e del virus non è stato un fatto eccezionale e imprevedibile, ma l’epitome evidente di processi che si sono stratificati per decenni e che sono poi esplosi nella loro evidenza e forza. La crisi dell’euro e la conseguente “botta” di austerità che ne è seguita sono un lascito che ha trasformato l’economia e la società nazionale e regionale: siamo sempre più un paese che esporta e che ha una domanda interna troppo debole. I tagli di bilancio hanno colpito la spesa sociale e gli investimenti pubblici con grave pregiudizio delle aree interne e delle fasce di popolazione meno abbiente. Su questo terreno instabile sono poi sopraggiunti il sisma e la pandemia.

Come progettare la Regione dopo queste tre crisi? Questa è la scommessa della post Regione, cioè della Regione che sarà.

Nella risposta che il testo prova a dare emerge l’attitudine comunque evidente di Salvi, che io definirei progressista e storicista in perfetta linea di continuità con la cultura dominante nella sinistra italiana. Cioè, una predisposizione positiva e ottimistica riguardo al futuro. Per Salvi tutto assume il profilo di una opportunità da cogliere: le stesse difficoltà del tessuto sociale marchigiano, in procinto insieme all’Umbria di scivolare da ultima propaggine del nord-est a lembo nord del sud Italia, possono trovare rimedio dentro i paradigmi che ci hanno guidato sino qui. Basta aggiustare un poco e mettersi di impegno. Così vengono accolte con entusiasmo le nuove formule magiche dei nostri tempi, “green new deal” o “next generation”, che sono assunte in maniera per nulla critica, con ottimistica inclinazione.

Da paesologo praticante porto invece più dubbi che certezze riguardo a questi tempi e ai loro miti, ed è sempre utile richiamare la critica leopardiana della “magnifiche sorti e progressive”. Come diceva Keynes le vecchie idee sono dure a morire, e francamente queste nuove parole d’ordine sono troppo vicine a quelle vecchie per rappresentare davvero una svolta.

Le piccole comunità più che a questo progresso digitale-sostenibile-inclusivo-multietnico-globalista guardano a bisogni più modesti e concreti. Più che delle opportunità si fidano dei diritti. Il punto è che nemmeno il futuro è più quello di una volta, come scriveva Paul Valery. Più che costruire vogliono conservare: “difendi, conserva, prega”, scriveva Pasolini. Desiderio di conservazione che le élite non comprendono. Esse guardano all’innovazione come a un mito, all’internazionalizzazione come a una terra promessa. Hanno scarsa attenzione per quello che c’è, per la realtà dei luoghi, poco rispetto per chi ama la terra degli avi come un destino. Il cittadino del mondo non ha paese né piazza ma solo aeroporti e centri congressi che lo attendono. La medesima economia manifatturiera e industriale è pensata più per l’esportazione che per la domanda interna. Questi processi di sradicamento di individui e comunità hanno dei costi. L’ondata populista del 2016, che è arrivata anche nelle elezioni regionali marchigiane, dovrebbe insegnare qualcosa. I valori manageriali della razionalizzazione neoliberale, così come il linguaggio e le parole d’ordine che li veicolano, sono fatti apposta per marginalizzare le aree che meno sono attrattive per il profitto aziendale. A meno che non diventino esse stesse fonte di profitto: come per le discariche o per gli impianti energetici che stravolgono il paesaggio.

 

Fondi europei e stufe a legna

 

Ora si attende la manna dal cielo dei fondi europei che dovrebbe cambiare le nostre vite. Come si spendono queste nuove risorse europee? Quali condizionalità? Si legge ogni tanto che gli esperti non bastano, che le regole di controllo sono troppo lente. E lo stato di diritto? Il punto è che le voci di spesa sono fissate dall’alto e calano così sulle comunità, senza alcuna relazione con il vissuto concreto. Non sono i bisogni delle collettività a determinare gli investimenti ma il contrario, le comunità dovranno spulciare le voci e le clausole per vedere se è possibile ricavarne qualcosa. E se qualcosa dovesse andare storto, se questi strumenti non funzioneranno, secondo la narrazione dominante sarà massima “colpa” e “responsabilità” solo nostra! Mai il dubbio che il difetto sia altrove, in un riformismo burocratico e ragionieristico imposto dall’alto.

 Da paesano incallito mi chiedo ascoltando le campane: la transizione digitale o ecologica che cosa sono davvero? Devo riprendere il carretto come il bisnonno? In montagna è difficile girare col monopattino e siamo anche abituati ad accendere le stufe a legna.

 

 

(*paesologo praticante, autore de “L’anima dei borghi. Paesologia delle Alte Marche”, Il lavoro editoriale, 2020)

 

Commenti

Post popolari in questo blog

UNA ZES PER LE REGIONI IN TRANSIZIONE

UNA CARTOLINA DA CAMERINO FUTURA

OTTO ANNI DAL SISMA: SERVE UN’OPERAZIONE VERITA’ E UNA NUOVA POLITICA PER LE AREE INTERNE