LA SFIDA DI DRAGHI È ANCHE LA SFIDA DELLE MARCHE
Ci sono almeno tre motivi che rendono quella del PNRR una partita cruciale per il nostro Paese. Il primo riguarda il fatto che il Recovery and Resilience Facility rappresenta una svolta nelle politiche dell’Unione europea, per la scelta di abbandonare l’austerity, adottando una politica espansiva fondata sul rilancio degli investimenti pubblici e sulla condivisione del debito. Il secondo che tale scelta è stata adottata per venire incontro ai paesi colpiti dalla pandemia, con un’attenzione proporzionale a quelli che lo sono stati maggiormente come l’Italia. Entrambi questi motivi segnano un’effettiva cesura rispetto alle modalità adottate nel 2009 per affrontare la crisi della Grecia.
Il terzo motivo, della massima importanza per il nostro Paese, concerne invece il fatto che l’Italia più di altri paesi porta sulle sue spalle la responsabilità di dimostrare anche ai più reticenti che questo cambiamento delle politiche europee, più volte invocato, rappresenta la strada giusta per disegnare un futuro fatto di Persone, Pianeta, Prosperità, come recita lo slogan del G20 incorso.
A noi, quindi, l’onere della prova, tenendo in conto che se non saremo capaci di attuare efficacemente il Next Generation EU non solo falliremo nella dimostrazione che una via diversa dall’austerity è possibile, ma rischiamo di pagare un conto salatissimo, derivante dal combinato disposto di un pesante indebitamento e di un declino demografico progressivo. È per questo che la sfida posta da Draghi di una crescita duratura e sostenibile è fondamentale; in assenza di ciò la sostenibilità stessa del debito rimetterà l’Italia al centro della scena, ma con ben altre prospettive davanti.
L’aver lanciato l’idea di un nuovo patto economico e sociale o di una “prospettiva economica condivisa” – come preferisce chiamarla il premier – risponde esattamente a quella sfida e, d’altra parte, che prima o poi questa proposta venisse avanzata era naturale aspettarselo dall’erede della ciampiana politica dei redditi, allora adottata per contribuire al risanamento della finanza pubblica e oggi per provare a ricostruire il Paese.
Tutto ciò passa attraverso la “messa a terra” del PNRR per conseguire gli obiettivi prioritari per lo sviluppo sostenibile del Paese, spendendo le ingenti risorse in maniera trasparente, efficiente ed efficace e rispettando la tempistica concordata con l’UE. Ma, soprattutto, richiede che vi sia stabilità politica, quella che soltanto il costante prevalere dell’interesse generale tra le forze politiche può garantire, ben oltre le schermaglie politico-partitiche.
Le Marche, poi, hanno bisogno più di altre regioni che questo processo si consolidi e riesca, perché hanno visto sommarsi sulle proprie spalle tre crisi, economica (2008-2012), sismica (2016-2017) e pandemica (2020-2021), ognuna delle quali ha amplificato la precedente e da cui sarà molto complesso uscire. Dopo un anno dalle elezioni regionali possiamo dire che questa preoccupazione resta intatta.
Le molteplici criticità che ciascuna di queste crisi ha evidenziato hanno, tra l’altro, messo in discussione lo statuto stesso dell’ente regionale, che a cinquant’anni dalla sua nascita conserva un indubbio potere d’indirizzo e d’orientamento della comunità regionale, quando ha la capacità di assolvere a questa funzione, ma non possiede certo gli strumenti sufficienti per far fronte da sola ad un deciso ri-orientamento del sistema produttivo, al superamento dei profondi divari territoriali o all’ampia riorganizzazione del welfare pubblico.
Oggi, però, c’è una possibilità in più perchè questo possa accadere; essa non nasce da un agognato “ritorno alla normalità”, in una regione che da almeno dieci anni non trova pace, ma dal fatto che siamo in presenza di un nuovo intervento pubblico, di rango europeo e a declinazione statale, che può aiutare le energie private a prendere nuovamente coraggio e a rimettersi in gioco. E può aiutare anche il livello regionale a svolgere con maggior incisività il proprio ruolo, piuttosto che a reclamare “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia”.
Nuovo intervento pubblico significa programmazione, investimenti pubblici e politiche industriali, livelli essenziali delle prestazioni e fabbisogni standard, perequazione contro squilibri e disuguaglianze, riorganizzazione della pubblica amministrazione attraverso l’innesto di nuove competenze e il rafforzamento della capacità progettuale, protagonismo dei corpi intermedi e nuovi spazi per l’agire politico organizzato, coinvolgimento di una filiera istituzionale e concertativa multilivello.
Il ciclo economico internazionale post-pandemia, fortemente condizionato dalle scelte espansive delle maggiori economie mondiali, ci obbliga a recuperare rapidamente anche alla scala territoriale questi elementi, se vogliamo che le opportunità del PNRR, del Fondo complementare, della nuova politica europea di coesione 2021-2027 siano colte a pieno e tradotte efficacemente.
Un’avvisaglia l’abbiamo avuta con il Contratto Istituzionale di Sviluppo per le aree del sisma del Centro Italia, che avrebbe dovuto essere la “prova generale” della nostra capacità di gestire le ben più cospicue risorse del Fondo complementare per le aree dei terremoti del 2009 e del 2016, di cui in questi giorni viene presentato il Programma degli Interventi Unitari, e invece si è rivelato il “passo falso” da non ripetere. Soprattutto, perché al fondo delle diverse inefficienze e storture che si sono manifestate, una più delle altre è risultata evidente: l’assenza di una qualsiasi visione del futuro delle aree interne della nostra regione.
Un problema grave, che se replicato su altri tavoli e ad altri livelli potrebbe pregiudicare il contributo che le Marche sono chiamate a dare alla sfida lanciata da Draghi, che è la sfida vitale per l’intero Paese.
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