INVESTIRE SULLA CITTA’ APPENNINICA, COSI’ SI ARRESTA LO SPOPOLAMENTO




L’articolo del prof. Iacobucci “Spopolamento programmato e l’economia delle aree interne” (Corriere  Adriatico 30 giugno 2021), pone la questione cruciale del saldo demografico negativo che, pur essendo un problema europeo e italiano, trova nella nostra regione motivi in più di preoccupazione, soprattutto nelle aree dell’entroterra e del cratere sismico, dove il terremoto ha accelerato dinamiche già in atto.

La sua tesi è che senza “un ripensamento radicale del modello d’insediamento della popolazione sul territorio” la civiltà dell’Appennino è destinata ad un inesorabile declino. Il sistema di insediamenti attuale delle aree interne, infatti, non sarebbe “adatto alle nuove condizioni di produzione del reddito e, soprattutto, alle nuove esigenze di accesso ai servizi pubblici e privati che sono considerati irrinunciabili nelle scelte localizzative di individui e famiglie”.

La densità e la concentrazione di persone, mezzi e capitali è importante per innescare circuiti di domanda e offerta capaci di produrre economie di scala, maggiore valore aggiunto, nuovi processi di accumulazione, con ricadute positive sulle opportunità, l’occupazione e il ripopolamento stesso.

Il tema è serio, soprattutto se si pensa non di assistere l’Appennino o farne un luogo del folclore, ma di renderlo propulsore di nuovo sviluppo.

L’esperienza emiliana dei Comuni “gronda”, a cui evidentemente Prodi si riferisce nell’espressione citata da Iacobucci, cioè Comuni che nel tempo hanno drenato e raccolto le acque dello spopolamento dell’Appennino e costituiscono dei punti di riferimento degli ecosistemi urbano-rurali di cui sono fatte le zone collinari e montane, ha un corrispettivo in terra marchigiana in quel sistema pedemontano che da Urbino fino ad Ascoli, passando per Fermignano, Cagli, Sassoferrato, Fabriano-Cerreto D’Esi, Matelica, Camerino-Castelraimondo, San Severino-Tolentino, Sarnano, Amandola e Comunanza, rappresenta la “città appenninica”, a suo modo speculare alla “città adriatica” della linea di costa.

È su questo sistema urbano, che è anche un’armatura territoriale che dai 12 poli industriali dell’entroterra degli anni ’70 ad oggi ha svolto una fondamentale funzione di resistenza e di rinnovamento della vocazione manifatturiera e produttiva dell’Appennino, che bisognerebbe puntare, altro che “piccoloborghismo” e contesti silvo-pastorali!

Qui insistono aree produttive, distretti industriali e della conoscenza, PMI internazionalizzate, concentrazioni di arte e cultura, alta qualità del vivere e stretto rapporto con i sistemi territoriali di riferimento, fatti di ruralità, montagna, borghi, beni comuni e ambiente ancora incontaminato. La modernità, per chi non se ne fosse accorto, è arrivata anche nell’Appennino, producendo non di rado risposte di successo.

Oggi, rispetto a quanto avvenuto all’indomani del sisma del 1997, bisogna prendere atto che la ricetta per lo sviluppo dell’entroterra, allora individuata e praticata fino al sisma del 2016, ha mostrato i suoi limiti. Non è da abbandonare, ma non può essere la risposta per risollevare questa parte di Marche, da cui dipende il superamento del divario territoriale che impedisce alla nostra regione di crescere.

Non è più sufficiente il “secondo motore” dello sviluppo, ossia il turismo come miscelatore di una serie di ingredienti: ambiente, cultura, enogastronomia. L’economia turistica, duramente colpita dalla pandemia, già in occasione del sisma ha manifestato la sua volatilità e, soprattutto, negli ultimi venti-trenta anni ha svolto una funzione “paracadute” rispetto ai problemi dello spopolamento dell’entroterra, senza tuttavia riuscire a impedirlo.

Oggi, è necessario fare un balzo in avanti, pensando a un Appennino contemporaneo che assume fino in fondo le sfide della transizione verso la sostenibilità, della digitalizzazione e della coesione-inclusione sociale, riducendo l’eccessiva dispersione che rappresenta un punto di debolezza.

Occorre pensare al futuro delle aree interne in termini di economia fondamentale e integrata, fatta di beni ambientali e comuni, servizi eco-sistemici, manifattura sostenibile, imprese culturali e creative, comunità energetiche, servizi alla persona, ricerca e alta formazione, mettendo mano coraggiosamente all’assetto istituzionale, infrastrutturale e amministrativo.

L’Appennino, culla della civiltà urbana, ma anche spazio del pensiero territoriale, ha bisogno di una classe dirigente che non critichi la ricerca di nuovi modelli di sviluppo ma provi ad attuarli, se ne è capace, soprattutto ora che le risorse ci sono e non si può fallire.


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