POLITICA E GIUSTIZIA, FARE UN PASSO IN AVANTI



L’uscita del libro di AA.VV. “Legalità. Temi per un dibattito” (Affinità Elettive 2021) avviene in un frangente particolare della vita nazionale dove la riforma della giustizia è tornata al centro del confronto pubblico come una delle riforme essenziali non solo per corrispondere alle raccomandazioni dell’Unione europea, ma per superare il principale conflitto che ha riguardato la storia recente del Paese.

La riflessione di Elena Montecchi su “legalità e cultura politica nella crisi italiana”, che apre il libro, è quanto mai opportuna perché è venuto il tempo di un bilancio il più possibile sereno e distaccato sulla stagione che è andata sotto il nome di “Tangentopoli”, dal quale chi si propone di riformare la politica e la giustizia non può prescindere.

Non solo perché è passato circa un trentennio dal suo insorgere, un tempo adeguato a un primo approccio di tipo “storico”, ma soprattutto perché ne ha bisogno il Paese, che da allora ha vissuto un’interminabile transizione senza approdo, sottoposta oggi agli effetti incalcolabili e politicamente imprevedibili di una emergenza sanitaria ed economica senza precedenti.

Il terreno è certamente scivoloso, nondimeno affrontarlo è indispensabile. Ogni riflessione critica su quel periodo della nostra vita nazionale rischia di apparire la difesa di un assetto statico e consociativo, nel quale la corruzione non era certo un’invenzione dei magistrati, ma un tratto pervasivo del rapporto tra politica e società, frutto di una “democrazia bloccata”, attraversata dalla linea di faglia del bipolarismo internazionale e nella quale i tentativi di riformarla, aprendo ad una piena legittimazione democratica e di governo delle forze in campo, erano drammaticamente falliti.

Da questo punto di vista è condivisibile quanto Pietro Scoppola ha scritto sulla fine della “Repubblica dei partiti”, individuando nel sequestro e omicidio di Aldo Moro il tragico evento che ha fatto da spartiacque tra un “prima” e un “dopo”.

Finita la stagione del finanziamento estero della politica italiana, gli anni Ottanta del Novecento con il loro cambiamento di stili e costumi, anche politici, sono stati il lungo periodo d’incubazione di un intreccio perverso tra un potere sempre più sclerotizzato e un’economia protetta. Il primo sancito dalla politica del “preambolo” che aveva dato vita al pentapartito e da una opposizione rifluita nella difesa della propria “diversità”; la seconda garantita dal connubio con lo Stato, dalla spesa pubblica e dalla dipendenza dal sistema bancario; tutti fattori funzionali alla costruzione del consenso a difesa dello status quo e al depotenziamento del conflitto politico e sociale.

La fine dell’assetto bipolare del mondo e l’apertura al libero mercato di paesi fino ad allora preclusi hanno avuto in Italia, più che in ogni altro paese occidentale, degli effetti destrutturanti sul sistema politico ed economico. Grande è stata in questa circostanza, come in altri passaggi della storia, la dipendenza del nostro Paese dai cambiamenti dello scenario internazionale. L’apertura del sistema economico nazionale alla competizione globale richiedeva il ridimensionamento del ruolo ipertrofico dello Stato, da ottenere mediante la riduzione della spesa pubblica, la dismissione delle partecipazioni statali, la privatizzazione della grande impresa pubblica e la riforma bancaria. Ma ciò ha finito per determinare anche la scomparsa dei partiti della cosiddetta “prima Repubblica”, che di quell’assetto erano stati gli artefici e i garanti.

È nell’alveo del processo di mondializzazione economica che si è affermato il ruolo nuovo della giurisdizione, delle magistrature e delle corti dei diversi Paesi, non solo perchè ovunque esiste negotium economico vi è negotium giuridico e, quindi, un giudice che deve far valere un contratto, ma soprattutto perché è a quel livello che è avvenuta la saldatura tra potere economico e potere giudiziario, con il secondo garante del rispetto delle regole del mercato “perfetto”, oltre e - se necessario - contro i confini delle giurisdizioni dei singoli Stati. Da questo stesso processo, inoltre, è derivata la perdita di ruolo degli Stati nazionali e la subalternità della politica nella sua dimensione nazionale rispetto alla trans-nazionalità dell’economia.

L’azione congiunta di potere economico e potere giudiziario si è dispiegata su scala planetaria, ed è stata ovviamente più marcata nei contesti dove maggiori erano le resistenze, i ritardi e i reciproci condizionamenti tra politica ed economia. È questo il caso italiano, in cui la magistratura, colpendo la corruzione che c’era, ha spezzato il cordone ombelicale tra partiti, grande impresa e finanza pubblica, ma ha anche aperto un “processo” ai partiti in quanto tali, la cui facile sostituzione con una “società civile” priva di ombre si è dimostrata per quello che era, un’illusione.

Cosa abbia impedito una rigenerazione dei partiti e del sistema politico è riconducibile a due fattori: il primo riguarda il riposizionamento dei poteri economici, ampiamente compromessi con il vecchio assetto, ma proprietari dei maggiori organi di stampa e dei media (emblematico il caso di Berlusconi); il secondo concerne la debolezza delle culture politiche del Paese, in particolare quelle riformatrici, incapaci di leggere la nuova fase politica ed economica internazionale e di mettere in campo un progetto convintamente europeo di riforma delle istituzioni e della società.

Il primo aspetto ha finito per saldare l’azione della magistratura a quella dei mezzi di comunicazione, dando vita al cosiddetto “circuito mediatico-giudiziario”; il secondo aspetto ha riguardato sia la natura della destra italiana, incapace di una evoluzione in senso pienamente liberale e costantemente sollecitata da atteggiamenti antisistema, sia la fragilità dell’impianto culturale della nuova forza politica della sinistra, il PDS, nato dallo scioglimento del PCI, che non ebbe la forza di contrastare gli eventi e finì per inseguire le iniziative referendarie e il sentimento giustizialista che permeava l’opinione pubblica.

L’insieme di questi elementi ha fatto imboccare al Paese una scorciatoia che gli ha impedito di prendere coscienza di ciò che era effettivamente accaduto, di rielaborarlo adeguatamente, evitando semplificazioni che invece si sono imposte e che, pur non reggendo alla prova dei fatti, hanno finito per stratificare ad ondate successive una “costituzione materiale” dissonante rispetto a quella formale; disintermediazione e personalizzazione ne hanno rappresentato i tratti persistenti, fino agli attuali esiti populisti e sovranisti.

Se ciò - da un lato - ha reso difficile ogni coerente riforma sia della legge elettorale che della seconda parte della Costituzione, puntualmente bocciate dall’elettorato, - dall’altro - ha contribuito a non affrontare una seria riforma dei partiti (secondo l’art. 49 della Costituzione) e a svilire le prerogative e l’attività del Parlamento, anch’esso oggetto di ricorrenti campagne di delegittimazione a prescindere da una vera discussione pubblica di merito sul funzionamento e sui correttivi da apportare per ridare ad esso la centralità che ha in una Repubblica democratica parlamentare.

Né questa situazione ha favorito l’adeguata selezione della classe dirigente, come è dimostrato dal suo rapido turnover.

Negli anni turbolenti che ci separano dai primi anni Novanta del secolo scorso, due sono state le istituzioni che - per il loro alto profilo e non senza esposizioni ed affaticamenti insopportabili a lungo -hanno garantito la tenuta del Paese: la Presidenza della Repubblica e la Corte costituzionale.

La sensazione sempre più vivida, però, è che avanzi un neanche troppo sotterraneo svuotamento della nostra Costituzione, sempre meno presente per i valori che esprime e lo sforzo attuativo che indefessamente richiede e sempre più ridotta ad un insieme di regole del gioco politico, il quale nel linguaggio come nella prassi legislativa e nei comportamenti dei leaders indulge frequentemente alla sgrammaticatura e alla forzatura istituzionale e costituzionale.

Tutto ciò mentre la politica ha continuato ad essere subalterna all’economia, a partire dal finanziamento delle campagne elettorali dei candidati, la corruzione non è venuta meno, ma ha trovato vie più sofisticate per intrattenere un rapporto incestuoso con il potere, e la simpatia dell’opinione pubblica per la magistratura ha raggiunto lo stesso livello dei partiti politici. Con il risultato che la sfida di “quadrare il cerchio”, che ci proponeva Ralf Dahrendorf negli anni Novanta del secolo scorso, si è trasformata nel caso italiano nella “ruota quadrata che non gira”, come sintetizzato da ultimo dal Censis.

Eppure, uscire dalla trappola in cui è relegata diventa per la politica vitale, giacchè è ormai fin troppo evidente che la sua debolezza è funzionale soltanto all’arricchimento senza precedenti di ristrette oligarchie economiche trans-nazionali. La cesura rappresentata dalla crisi economica del 2008 prima e dall’emergenza sanitaria oggi hanno fatto giustizia di una “narrazione” che ha individuato nei partiti la causa di ogni male. Penso, invece, che sia venuto il tempo di un reinvestimento urgente nella dimensione democratica, civile e comunitaria dell’agire politico, quantomeno se vogliamo che a pagare l’ingente debito che la crisi ha reso necessario fare si cominci dalla parte giusta.


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