OCCUPARSI DEL PARTITO, QUEL CHE SERVE AL PD
La partita nelle città grandi e più piccole non sarà facile, perché la politica delle alleanze non è ancora matura al punto giusto e perché, nonostante le divisioni su scelte fondamentali (come quella di sostenere o di opporsi ad un governo come quello Draghi) e sulla leadership, il centrodestra si presenterà quasi ovunque unito.
La voglia sociale di “normalità” e di recuperare il tempo perduto potrebbe tradursi in una sorta di “tana libera tutti”, piuttosto che in una ripartenza consapevole e solidale, come sarebbe necessario per cambiare quello che già prima dell’emergenza sanitaria non andava. Il centrodestra da mesi cavalca quel messaggio, e ha buon gioco la Meloni ad avvantaggiarsene rispetto agli altri partner di coalizione.
La lettura del libro di Enrico Letta (“Anima e cacciavite”, Solferino 2021) è utile per capire come il Pd intende interpretare e dare sostanza a questa nuova fase. Racchiude una buona agenda riformista, dalla quale traspare la maturità dell’autore e la consapevolezza acquisita attraverso la sua esperienza di docenza europea sull’importanza del tema delle disuguaglianze generazionali, di genere e territoriali che la pandemia ha drammaticamente acuito.
Nel libro, però, così come nei punti inviati ai circoli all’indomani dell’elezione a segretario, non ho ritrovato un passaggio molto significativo del discorso che Letta aveva pronunciato nel momento della sua investitura. Esso riguardava la motivazione per cui aveva scelto di andare a dirigere il PD, ritenendola la cosa più importante che potesse fare nella nuova fase di ricostruzione post pandemia, e l’invito ai democratici a scegliere di “occuparsi del partito”, prima ancora degli incarichi istituzionali, perché società, politica e partiti sarebbero stati centrali nel percorso di rinascita.
Si potrebbe persino aggiungere che o società, politica e partiti tornano centrali o sarà la ricostruzione stessa del Paese a rivelarsi cosa effimera e sostanzialmente fallimentare.
Questo richiamo al lavoro sul partito mi pare il nocciolo della questione che il PD deve risolvere e che fin dalla sua nascita ha decisamente trascurato. E credo sia l’ingrediente essenziale, capace di fare la differenza, nella scommessa della segreteria di Enrico Letta.
Possiamo stupirci positivamente per le 40.000 risposte ad un questionario o per qualche decina di migliaia di votanti ai gazebo, ma che lo stato dei circoli, dei livelli provinciali e regionali del partito sui territori sia molto deludente è la pura verità. Lo stesso possiamo dire della quantità e qualità dell’iniziativa politica, fatte chiaramente le debite eccezioni.
Questa situazione è causata dalla contemporaneità liquida e dalla sua nuova piegatura digitale? Non esageriamo. È dovuta innanzitutto al fatto che il PD è nato verticalizzando in senso istituzionale i ruoli di partito, con il risultato che quando i ruoli istituzionali vengono meno non ci sono dirigenti pronti a rilanciare il partito, e da ciò discende non di rado l’implosione stessa della comunità politica sul territorio. Oppure, al fatto che non appena cessa il ruolo istituzionale perde di senso la stessa funzione di direzione politica, come dimostrano numerosi casi di abbandono di figure di primo piano che scelgono di fare altro.
Inoltre, il PD è nato pensando che la ragione per cui si chiama “democratico” derivi dal fatto di aver scelto le primarie come strumento di selezione della classe dirigente e non di dover affrontare la sfida epocale della crisi della democrazia, riformando, ampliando e regolando valori e forme concrete di vita sia al di fuori che all’interno di sé.
Lavorare sul partito è compito gravoso, ma attualissimo, perché significa costruzione di senso critico, maturazione e condivisione di una lettura della storia e della prospettiva del Paese, coinvolgimento di competenze che sono sempre più distanti dall’impegno politico, capacità di federare i soggetti di una società frammentata e per certi versi atomizzata dalla crescita delle disuguaglianze e delle solitudini.
Sulla dimensione federativa come forma nuova dell’essere partito dovrebbero ragionare a fondo le prossime agorà democratiche. Perché le primarie possono essere la chiamata alle armi ogni qual volta si vota, magari consentendo di partecipare anche a chi non ha votato e non voterà mai PD, oppure l’espressione di una partecipazione strutturata e continuativa fatta di circoli, associazioni, club, comitati, forum, che si esercita in modo regolamentato nel momento della chiamata istituzionale, ma che vive tutto l’anno attraverso la definizione di patti federativi e progettuali a cerchi concentrici e a geometria variabile, valorizzando anche le opportunità offerte dalla rete e dalle nuove tecnologie digitali.
Allora forse, anche il dilemma in cui si dibatte Enrico Letta nel suo libro e cioè se la democrazia sia compatibile con la civiltà digitale e se sia ancora possibile una intelligenza collettiva che si faccia partito, potrebbe trovare una risposta. Dopotutto un partito serve a decodificare il proprio tempo, dentro un prima e un poi, provando a generare “onde”, messaggi, campagne di opinione, mobilitazione civile; diversamente non resta che provare a “surfare” l’onda altrui, che prima o poi inevitabilmente finirà per sommergerci.
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