La Post Regione - Le Marche della doppia ricostruzione - di Pier Luigi Falaschi
Ho dedicato tanti anni della mia vita allo
studio di giuristi e istituzioni appartenenti ad un passato remoto (soprattutto
al Trecento), negli ultimi tempi mi è capitato di riflettere solo
occasionalmente sulle vicende politiche regionali, da anziano - infine - non
sono propenso ad accettare le innovazioni più audaci. Questi limiti non mi rendono
interprete ideale degli scritti di ispirazione politica, economica e sociologica
d’uno studioso che, attento in prevalenza alla realtà attuale, ha per di più
raggiunto la pienezza della maturità. Così io valuto Daniele Salvi che, formatosi
in una Facoltà di filosofia accreditata come quella di Perugia, grazie alle sue
doti intellettive e indotto dalla passione per la politica e dai ruoli
ricoperti nel partito democratico, prima in Provincia e poi in Regione, ha
avuto agio di crescere ulteriormente meditando i grandi temi della società
italiana, più specificamente di quella marchigiana. L’impegno, in realtà, è
riuscito a lui agevole grazie anche ad un amore straordinario per i libri e per
lo studio, ma grazie altresì ad una lunga militanza nel partito della sinistra che
molto a lungo ha sostenuto ed agevolato - ora purtroppo sembra aver rinunciato
- la formazione culturale dei suoi aderenti, soprattutto dei giovani. Nonostante
i limiti da me confessati, ho accettato con piacere di esprimere qualche considerazione
sul libro La post regione, e l’ho fatto
soprattutto per avere l’opportunità di dichiarare, davanti a molti amici, ma
comunque in pubblico, quanto io apprezzi le qualità umane e culturali
dell’autore, in particolare la sua disponibilità ad approfondire tematiche
importanti per la società locale.
Veramente la stima e l’affetto
non riguardano soltanto Daniele, ma si estendono anche al suo unico fratello
Sergio, di un anno maggiore, laureato in biologia, ma anche lui impegnato nello
studio, anche lui attento ad ogni avvenimento che riguardi la terra di origine
e dedito con costanza alla sua promozione. Non si esagera nell’affermare che,
se uno scienziato e un benemerito dell’umanità come Nazareno Strampelli di
Crispiero - caduto nell’oblio nel secondo dopoguerra per l’esaltazione che di
lui aveva fatto il fascismo, impegnato com’è noto nella battaglia del grano, se
uno scienziato come Strampelli - dicevo - è tornato negli ultimi lustri nella
considerazione di cultori di varie discipline (botanica, agraria, genetica,
scienza dell’alimentazione) si deve
principalmente agli scritti, alle conferenze, ai corsi tenuti da Sergio Salvi.
Voglio bene e stimo i
fratelli Salvi anche perché ho scoperto in loro affinità e scelte che ricordano
me stesso, soprattutto il me stesso degli anni migliori, quelli aperti ancora alla
speranza. Come loro, figlio di padre accreditato solo da grande laboriosità ed eccezionale
rigore morale - qualità oggi non più in auge - ho incontrato gli ostacoli,
sofferto i complessi, subito le discriminazioni riservate ai c. d. uomini
nuovi, costretti ad improvvisarsi avi di se stessi, obbligati ad impegnarsi
il doppio dei privilegiati per raggiungere le stesse mete, beneficiari - è vero
- anche di consensi e lusinghe, purché non ardiscano correre con rampolli di
razza o con gregari di potenti. Coi fratelli Salvi ho, inoltre, condiviso e
condivido vari sentimenti: un amore per questa nostra sfortunata terra, che io
stesso ritengo patetico, uno stupore senz’altro esagerato per le sue bellezze
naturali (l’Italia è in realtà meravigliosa in ogni sua parte) e insieme stupore
per gli uomini e per i beni culturali che ha prodotto, un forte orgoglio per
l’appartenenza ad essa e per l’identità che ci ha trasmesso, una voglia sicuramente
eccessiva di esaltarla e promuoverla.
Ho detto prima “questa
nostra sfortunata terra”: forse è riduttivo definire solo ‘sfortunata’ e non ‘disperata’
una terra come il camerinese (la denominazione ‘Alto maceratese’ è una
denominazione ingiuriosa senza fondamento geografico e storico), una terra che
dopo essere stata fino al secolo diciannovesimo meta di immigrati che giungevano
da località vicine e lontane alla ricerca di lavoro e di condizioni migliori di
vita (questa è la vicenda di mio nonno artigiano trasferitosi da Matelica a
Camerino insieme ad un suo fratello medico), nel secolo successivo è stata a
poco a poco consunta dal declino delle attività produttive nelle quali aveva
raggiunto un primato in regione e da una
emigrazione a tal punto debilitante, che oggi la vitalità di questa terra è solo
quella trasmessa da pensionati sonati e giovani depressi, con titolo di studio
elevato eppure senza lavoro o sottoccupati, non scappati altrove perché è
mancato loro il coraggio di abbandonare i vecchi. Su questa comunità, già tanto
provata, si sono abbattute ad esasperazione sciagure bibliche come il terremoto
e la pandemia.
Il titolo del libro di
Daniele Salvi, “La post Regione”, ammiccante
col ‘post’ a casi noti di trapasso e superamento - come quando si parla, ad
esempio, di post-moderno
nell’arte - esprime la conclusione d’un ciclo, che risulta facile scoprire, anche
per le celebrazioni recenti, durato cinquanta anni, essendo decollate le
regioni a statuto ordinario, e tra queste le Marche, solo nel 1970. Il titolo
del libro sembrerebbe segnalare con garbata ironia e un minimo di scetticismo come
non soddisfacente il ciclo medesimo, sembrerebbe inoltre suggerire l’urgenza di
rinnovare l’istituzione. Tuttavia, è il caso di rilevare subito che riserve nei
confronti dell’ente regione, in favore del quale Salvi si è così a lungo speso,
non si colgono al di fuori del titolo.
Volendo essere aderenti
alla realtà non si può affermare che le Regioni abbiano tradito le attese
popolari. Il dibattito che ne precedette il varo coinvolse poco i marchigiani comuni,
uniformemente soggiogati da questa idea: che l’autonomia e la maggiore
partecipazione alla vita politica, propagandate dai partiti maggiori, non li
avrebbero raggiunti e avvantaggiati. In realtà furono soprattutto i militanti dei
partiti comunista e democristiano che, invocando la carta costituzionale, si
prodigarono per la nascita dell’istituzione: i comunisti convinti, dopo lustri
di astinenza forzata dal governo, di pervenire alla guida almeno delle regioni c.
d. rosse; i democristiani fiduciosi di strappare un numero consistente di nuovi
redditizi seggi per appagare le aspettative di tanti loro attivisti inappagati
e scalpitanti. Forse in nessun settore - diverso dalla politica - il confine
tra ideali politici alti ed ingordigia di potere e denaro è altrettanto labile.
Tuttavia, i marchigiani, sia
pur prevenuti, non giunsero mai a paventare con le Regioni il varo di tante piccole
fameliche capitali regionali, che aggiunte a Roma da sempre considerata ‘ladrona’,
avrebbero comportato un’accelerazione allo spopolamento dei centri minori. Non
dimentichiamo che la Marca, solo per la diffusione di tante piccole,
industriosissime città, alcune divenute nel Rinascimento sedi di signoria, e
quindi piccole capitali, non risucchiate da un unico centro dominante, era
rimasta per secoli - come attestano i registri della Camera apostolica, il
dicastero finanziario della sede apostolica - la provincia più produttiva, più
densamente popolata e di maggiore resa fiscale dello Stato pontificio. La
soppressione accelerata di uffici ed enti minori, e quindi l’eliminazione di
servizi essenziali, singolarmente coincisa con il consolidamento dell’Ente
regione, avrebbe decretato l’annichilimento delle città marchigiane più piccole.
Certamente nessuno può
negare che il declino demografico accelerato di aree rimaste o divenute
marginali è fenomeno ricorrente in ogni parte del pianeta, gestito ormai in
ogni sua parte da governi disposti tutti - senza distinzione - ad assecondare
lo sviluppo di megalopoli, e quindi trattasi di fenomeno sociale tanto travolgente
e diffuso da annientare le capacità di resistere e di rimediare proprie degli amministratori
espressi dalle Marche, in molti casi modesti. Non per questo a noi risulta più accettabile
lo spoglio consumato ai danni di Camerino: solo negli ultimi lustri alla città
e, quindi, al suo esteso circondario montano, sono stati sottratti di diritto o
di fatto i seguenti presidi - e mi
limito a segnalare solo quelli più importanti per la comunità residente e di
richiamo per altre -: la clinica ostetrica e ginecologica, la scuola per ostetriche
di livello universitario, la scuola per infermieri (l’una e l’altra di attrazione
per l’intera Penisola), gli uffici finanziari, il tribunale, il carcere
giudiziario… La soppressione del tribunale ha determinato come danno ulteriore lo
spostamento altrove di molti studi legali, dei loro addetti e il dirottamento della
clientela, abituata ad accorrere a Camerino anche da lontano per la fama acquisita
nel tempo dai giuristi del luogo.
Anche l’ospedale, il presidio più rassicurante
per i molti anziani e i pochi giovani dispersi su plaga montana molto estesa, viene
lasciato spegnere per la mancata sostituzione di sanitari andati in pensione o
trasferiti altrove, per la ripetuta conversione delle corsie in lazzaretto e il
conseguente sviamento dell’utenza tradizionale. Si aggiungano le difficoltà che
incontrano nuovi medici con prole a trasferirsi in un territorio spopolato (molti
sono i cittadini sfollati che dimorano ancora lungo la costa), lacerato
gravemente dall’ultima sequenza sismica, con segni di ricostruzione irrisori, privo
di prospettive di lavoro per i giovani.
Si obietterà che non
tutti i provvedimenti di soppressione ricordati sono stati presi della Regione,
ma si può giustamente replicare: a chi può spettare la protezione e la
salvaguardia delle comunità diffuse sul territorio regionale e soprattutto sul
territorio regionale montano, comunità tanto irrisorie da non aver più voce nei
consessi che contano? A chi spetta impegnarsi per il riequilibrio territoriale,
impedire la desertificazione dei territori e scongiurare i danni non meno
tragici che ne deriveranno all’intero Paese?
Non dimentichiamo che, ancora
una volta, all’impoverimento demografico ed economico di alcune zone ha
corrisposto la crescita e l’arricchimento ingiusto, e solo apparentemente
vantaggioso, delle altre. Si pensi al degrado toccato ai lidi marchigiani, divorati
sempre più dal mare, negati alla vista e al godimento di chi giunge
dall’interno da una cortina pressoché ininterrotta di edifici squallidi eretti fin
sulla battigia, strangolati dalla ferrovia e dall’autostrada. Si pensi alla
facilità con cui ha trovato ricetto e concentrazione la malavita nelle contrade
marine, grazie all’esuberanza di case degradate, vendute o locate a buon prezzo,
e grazie anche alla condiscendenza accordata dai nuovi ricchi locali ai
traffici illeciti: droga, prostituzione, gioco d’azzardo, riciclaggio.
Di fronte alla china disastrosa e
incontrollata di oggi non possono non tornare in mente esempi di buon governo e
di tutela dei territori adottati dai pur aborriti sovrani d’ancien régime. Così i granduchi di
Toscana, convinti di dover governare su un territorio uniformemente prospero,
fin tanto che rimasero al potere, impedirono a Firenze loro capitale - che pur
premeva - di dar vita ad una propria università, e ciò allo scopo di evitare la
decrescita delle Università di Pisa e di Siena, e quindi delle rispettive città.
Allo stesso modo si comportarono i duchi e i successivi reggitori di Milano,
che dovette attendere l’unità d’Italia per ottenere la prima università propria,
valutata non pregiudizievole per quella di Pavia. E la prima Università
milanese fu la Bocconi, eretta libera nel 1902 dal camerte Leopoldo Sabbatini,
il quale, fondatore altresì dell’Unione camere di commercio, fino alla morte
avvenuta nel 1914 sarà anche rettore della Università.
I temi intorno ai quali
roteano gli articoli di Daniele Salvi - ma forse sarebbe più opportuno riservare
a tutti la qualifica di saggi, come del resto sono stati volutamente concepiti
quelli più estesi destinati ad atti di convegni e a periodici impegnati - i
temi - dicevo - sono presto detti, anche sulla scorta dell’indicazione che ne fa l’autore nella
prefazione: montagna appenninica, aree interne, patrimonio culturale;
manifattura, credito e infrastrutture; luoghi e personaggi prevalentemente
marchigiani; macroregioni ed ecosistemi territoriali; sinistra, disuguaglianze
ed ecologia integrale; ricostruzione post-sisma e post-covid. Non mancano, infine,
biografie di personalità illustri o almeno benemerite verso la società, scritti
che rievocano un passato marchigiano lontano e, infine, vere e proprie
recensioni di libri.
I temi esprimono le molte
curiosità che Daniele ha voluto appagare e comunque sono tutte curiosità riguardanti
questa sua e nostra terra…
La scrittura è puntuale
ed elegante: non a caso una professoressa di liceo, pur schierata politicamente
a destra insieme ai suoi familiari, mi segnalava Daniele come uno degli allievi
migliori toccati a lei in sorte nel corso dei decenni dedicati all’insegnamento
nel Liceo classico di Camerino. Forti sono altresì la tensione morale, lo
spirito di solidarietà e la speranza cristiana che animano gli scritti.
Importante tener presente il credo cristiano apertamente manifestato
dall’autore: del resto, se ben riflettiamo, chi è rimasto oggi in Italia a
sostenere e a diffondere ideali di uguaglianza, di ridistribuzione della
ricchezza, di rimozione delle ingiustizie sociali? La risposta è pressoché
scontata: pochi cristiani impegnati e per questa loro scelta fortemente contestati
dalla destra: papa Bergoglio (segnalato giustamente da Daniele anche come
l’unico personaggio di rilievo mondiale oggi impegnato a contrastare
apertamente il pensiero liberistico), alcuni preti di frontiera, la Comunità di
S. Egidio del professor Andrea Riccardi, i Gesuiti romani di via degli Astalli,
la comunità di Exodus di don Antonio
Mazzi, Libera di don Luigi Ciotti.
Di rilievo la speranza
forte che Daniele Salvi riesce a concepire per questo nostro territorio:
speranza in realtà indispensabile per spendersi ed attendere in modo
vantaggioso alla ripresa di esso. Con questa fiducia, con questa ansia non
tralascia di assumere per efficace ogni dibattito, ogni convegno, ogni
relazione di commissione, ogni proposta normativa che prenda in considerazione
questa nostra terra o che, a livello nazionale, tratti di riequilibrio territoriale.
È in questa fiducia in una politica finalmente rinnovata - fiducia che
personalmente, da anziano troppe volte deluso, non mi sento di condividere - che
si manifesta l’ottimismo di Daniele.
Chi tra i politici,
indistintamente portati a strappare consensi larghi, si adopererà realmente per
il varo di norme favorevoli alle zone da tempo spopolate e ultimamente disastrate
dal sisma? Chi tra loro si farà carico di convincere le comunità più popolose e
prospere a non pretendere l’inserimento tra quelle da soccorrere con diluizione
senza fine delle provvidenze? A quali enti sarà rimessa l’applicazione di norme
favorevoli nell’ipotesi improbabile d’una loro approvazione e promulgazione?
La lunga permanenza come
docente all’interno della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Camerino
mi consente di ricordare le relazioni tenute in quell’ambito a partire - se non
erro - dagli anni settanta del secolo scorso e dedicate alla situazione del territorio
depresso da uomini esperti e apparentemente sensibili: quali il mai dimenticato
Luciano Barca, Giuliano della Pergola straordinario sociologo operoso
all’interno del Corso camerte di Scienze politiche, Giuseppe De Rita, Fabrizio
Barca. Ci infiammavano il cuore mostrandosi informati sui nostri problemi e
interessati alla loro soluzione: decantavano come singolari e pressoché intatte
le nostre bellezze paesaggistiche, esaltavano i nostri beni culturali e la
nobiltà dell’Ateneo, ci annunciavano prossima l’ora dell’inversione del declino
e a portata di mano la ripresa demografica.
Ma almeno De Rita in modo esplicito, ironizzando
sugli ideali bucolici coltivati a lungo dai politici locali, in quanto
apparentemente decisi a non contaminare la vasta oasi verde, dichiarava che una crescita dei residenti non si
sarebbe mai potuta ottenere senza aumentare adeguatamente le offerte di lavoro
e senza quindi favorire l’insediamento
nel territorio di più imprese di rilievo favorito da incentivi adeguati: concessione
di aree fabbricabili, allestimento di infrastrutture, credito agevolato, detassazione
almeno temporanea. Una leggenda
metropolitana, diffusissima a Camerino, ha ripetuto per decenni questo asserto:
il mancato insediamento di industrie nel camerinese sarebbe da attribuire ai
rifiuti opposti con sistematicità ad imprenditori, pur disponibili, dal boss
democristiano di Camerino Emanuele Grifantini, terrorizzato che nel territorio
con le industrie crescesse il numero dei comunisti. La scelta suggerita da De
Rita non doveva comunque indurre i camerti ad accantonare i sogni di sviluppo turistico
e di richiamo attraverso la cultura. Città con Università accorsate come
Bologna e Pisa, non si acquietano a vivere solo di istituzioni scolastiche e di
studenti; città come Firenze e Venezia, pur di attrazione mondiale per i tesori
artistici, non vivono solo di turismo. Proviamo ad immaginare in quale situazione
economica verserebbe oggi Venezia senza gli insediamenti industriali di Porto Marghera
e di Mestre, insediamenti in realtà valutabili mostruosi dal punto di vista
ecologico, ma è pur vero che oggi sono maturati ovunque gli intenti e sono
emerse le tecniche in grado di evitare la rovina degli ambienti naturali.
Per il riscatto del nostro
territorio è assolutamente indispensabile la crescita della popolazione
residente, ma certo ancora più urgente si profila la ricostruzione post sisma
per motivi fin troppo ovvi, che non è il caso di esprimere. Personalmente sono
angosciato in particolare da un interrogativo: fino a quando studenti e
professori di buon senso continueranno a scegliere una sede universitaria annientata
dai terremoti, dove la vita cittadina, la vita di relazione non esiste più?
Smetto di rattristare gli
amici coi lamenti del pessimista. Certamente la situazione delle Marche sarebbe
ben diversa se al governo delle istituzioni ci fossero state e ci fossero persone
veramente preparate ed illuminate, rese inquiete dall’ansia morale di realizzare
il bene comune, come appunto ha fatto fintanto che gli è stato concesso, e
potrebbe fare ancora, Daniele Salvi, pienamente idoneo ad occupare con dignità
qualunque alto scranno politico, eppure in più occasioni non valorizzato secondo
i meriti dal partito di appartenenza e dall’elettorato, quest’ultimo sempre più
influenzato da persuasori squallidi, capaci solo di divulgare valori negativi, tanto
immorali quanto rovinosi per le comunità. Pioraco negli ultimi anni è riuscita
ad esprimere amministratori protesi solamente al pubblico bene e per questo di larghissimo
seguito: mi permetto di citare Luisella Tamagnini e Matteo Cicconi, persone che
da tempo ammiro e oggi sono da ringraziare anche per l’ospitalità che ci hanno
concesso; ma mi sia consentito ricordare accanto a loro anche Sandro Sborgia,
in realtà sindaco di Camerino, ma con legami profondi con Pioraco. Infine, mi
piace salutare Franco Capponi, che ebbi il piacere di conoscere quando era al
vertice della Provincia ed ora è sindaco d’una città splendida come Treia. Grazie
ai presenti per l’attenzione.
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