PACE E BENE E LAVORO
Così stava scritto. A mano, con gessetto bianco, su un portone di legno grigio scuro usurato dal tempo. In modo incerto e precario, ma intoccabile. Resistette fino alla chiusura della fabbrica, non alla sua trasformazione in una officina meccanica.
In terra marchigiana, al tradizionale saluto augurale francescano, PACE E BENE, si era aggiunta un’altra E, seguita dalla parola LAVORO. Niente di più naturale.
Non vi era un’insegna della fabbrica, né qualcosa che dava un’immediata riconoscibilità a quel che lì si faceva, a parte il forte rumore. Soltanto quella scritta, che accoglieva chi varcava il portone oppure, quando era chiuso, salutava il passante.
Vi sarebbero state ancor meglio vergate le parole iniziali del Canto III de L’Inferno dantesco: “Per me si va ne la città dolente, / Per me si va ne l’etterno dolore, / Per me si va tra la perduta gente” (v. 1-3). Era questa la sensazione più prossima a quello che poteva provare un ragazzino che si fosse avvicinato a quell’entrata.
Oltre il portone, infatti, si parava innanzi una scena tetra, dominata dal rumore, dal fuoco, dal fumo, da grandi macchine in movimento e da persone intente in un lavoro duro, annerite negli abiti e nei volti.
Dopo un primo momento di sorpresa mista a timore, la scena non poteva non catturare l’immaginazione del ragazzino, soprattutto se tra quelle persone vi era suo padre. Lo poteva vedere proprio lì dentro, davanti ad una bocca di fuoco incandescente, intento a inserire pezzi di acciaio e ad estrarne lingue di fuoco che prontamente consegnava a un compagno di lavoro che era anche il padrone della fabbrica.
Questi, seduto alla guida di una grande macchina azionava sapientemente un pedale e un’enorme ruota, collegata ad altre attraverso delle spesse cintole, produceva i colpi di un pesante maglio, che - in un crescendo di rumore e poi in un ritmato calando - dava una prima forma alla lingua di fuoco.
Incominciava in questo modo il laborioso processo che avrebbe fatto di un pezzo di acciaio un perfetto oggetto da taglio per uso agricolo: falcetti, falcioni, pennati, roncole, etc. Mio padre non solo stava davanti al forno, ma - dopo il doppio passaggio tra forno e maglio - immergeva nell’olio il pezzo, lo “temperava”.
Poi c’era chi tagliava, chi molava, chi metteva i manici e chi rifiniva il pezzo, fino a renderlo pronto per l’imballaggio e la spedizione, anche all’estero.
Era quello di Carlo Palossi il più antico opificio del genere a Castelraimondo, paese cresciuto nei pressi del fiume e che da tempo immemore ha avuto proprio negli oggetti da taglio la sua produzione più tipica. Pochi operai in una fabbrica rigorosamente artigiana, il cui mestiere era stato tramandato da generazioni.
Un mestiere duro, come dimostrava lo sporco che s’imprimeva negli abiti, il sudore di chi vi lavorava, le scorie che si appiccicavano sugli avambracci quando il forno sputava. Ma anche un mestiere caratteristico, come caratteristici erano quei prodotti così precisi e affilati che uscivano dal lavoro delle macchine e delle mani degli uomini. Non solo oggetti per l’agricoltura, ma a volte coltelli, machete e persino lunghe scimitarre, quando al lavoro si univa il gioco.
Il ragazzino rapito da quel mondo e confortato dalla presenza paterna, in un cantuccio dove nulla poteva succedergli, osservava con attenzione quel che si faceva, mentre a volte riusciva a girare per le mura annerite, incuriosito da ciò che si svolgeva in un posto dove il ferro era dappertutto.
Carlo non impediva quella presenza spuria e da dietro gli occhiali aveva un’espressione severa e sorniona, ma con un accenno di sorriso. Ci siamo incontrati tante volte per il paese, quando dismessa l’attività e ormai in pensione andava in edicola ad acquistare il giornale con l’inseparabile “motoretta”, che gli rendeva più agevoli gli spostamenti. Scambiavamo qualche parola, sempre con cordialità e simpatia.
Ora Carlo se ne è andato. L’ultimo “ferraru” della sua storica famiglia. E io non ho avuto il coraggio di dirlo a mio padre, che con lui ha condiviso una buona parte della vita lavorativa.
Negli ultimi anni, quando all’uscita dal lavoro ad Ancona prendevo il bus per raggiungere il parcheggio auto, capitava spesso che a metà del tragitto salissero gli operai del cantiere navale, che avevano finito la giornata e rincasavano. Tante nazionalità, tute sporche, visi sudati e lo stesso acre odore di chi aveva lavorato sodo.
Ho sempre sentito un'affinità con i loro volti, la loro dignità e anche il loro pudore, consapevoli che in un bus viaggiano tante persone diverse e che chi fa l’operaio oggi è una minoranza, seppure numerosa. E ogni volta che salivano e guardavo le loro facce, mi tornava in mente quella scritta: PACE E BENE E LAVORO.
Commenti
Posta un commento