“SE MAI VEDI…”, LE MARCHE DI DANTE



“Ond’io, che solo innanzi a li altri parlo, / ti priego, se mai vedi quel paese / che siede tra Romagna e quel di Carlo, / che tu mi sie di tuoi prieghi cortese / in Fano, sì che ben per me s’adori / pur ch’i’ possa purgar le gravi offese” (Purg. V, v. 67-72).

Nel Dantedì, avvio delle celebrazioni per i 700 anni dalla morte del poeta della Divina Commedia, il più celebrato e noto al mondo, ci piace ritornare a quei versi del canto V del Purgatorio, dove - per il tramite di Iacopo del Cassero, che per primo si fa avanti e prende la parola tra la schiera dei “negligenti” - l’Alighieri ci dona la prima e più originale definizione delle Marche: “Quel paese che siede tra Romagna e quel di Carlo”.

Una definizione di cui spesso è stata messa in evidenza l’indeterminatezza riguardante l’oggetto e il fatto che questo viene identificato per differenza rispetto alle due realtà contermini chiamate per nome, desumendo da ciò la prova di una sua debole identità. Una sorta di montaliano “ciò che non siamo, ciò che non vogliamo” antelitteram.

È veramente così? C’è molto di convincente in questa interpretazione, tanto più che a rafforzarla interviene quel “se mai vedi…” che precede la definizione, come a dire “se ti capita di vedere…” quella terra, che evidentemente è poco conosciuta direttamente, perché appartata e fuori circuito rispetto agli itinerari più frequentati e, quindi, scomoda da raggiungere.

Dante avrebbe potuto usare la parola “Marca” per nominare quella che già a suo tempo si chiamava “Marca Anconitana” e corrispondeva a buona parte del territorio regionale, inclusa la città di Fano. Ma egli fa un’altra scelta, coniando un’espressione geniale, dettata certamente da ragioni poetiche, ma anche dall’intenzione di comunicare un dipiù.

Un di più territoriale, innanzitutto, perché - nel momento in cui distingue il luogo di cui parla dalla Romagna e dal Regno di Napoli - lo definisce anche nella sua maggiore ampiezza rispetto alla “Marca Anconitana”, e cioè come quel territorio che va dal “vento di Focara” (Inf. XXVIII, v. 89), ovvero dalla collinetta della Siligata e dal rio Tavollo tra Gabicce Mare e Cattolica - per dirla con lo scrittore pesarese Paolo Teobaldi - fino al fiume Tronto.

E lo definisce come “paese”; termine generico si direbbe, ma non tanto. Almeno in due altre circostanze dell’opera il poeta lo usa; quando nel canto XIV dell’Inferno parla della montuosa Creta come “in mezzo mar siede un paese guasto” (v. 94) e nel XXXIII sempre dell’Inferno dove, riferendosi all’Italia, lo definisce “‘l bel paese dove ‘l sì suona” (v. 80). In entrambi i casi “paese” indica un territorio comune, che è un tutt’uno, seppure plurale al proprio interno, come Dante ben sapeva dell’Italia, paese di paesi e di altrettanti “volgari”, e delle Marche, terra policentrica e a popolazione sparsa dove nessuna città ha un vero predominio nella regione.

Le Marche, più di altre terre chiamate per nome, sono “paese” e ciò le definisce sostanzialmente insieme a quel “siede”, voce del verbo “sedere”, cioè “aver sede, stare”. Questo è usato da Dante in più circostanze in senso geografico: “Siede la terra dove nata fui su la marina dove ‘l Po discende per aver pace co’ seguaci sui” (Inf. V, v.97-99), dice Francesca da Rimini della sua città natale Ravenna; “sie’ tra ‘l piano e ‘l monte” (Inf. XXVII, v.53) vien detto di Cesena nel canto di Guido da Montefeltro. Ma il verbo “sedere” è usato anche per indicare lo stare rilassato su un elemento di appoggio con le gambe piegate, ovvero l’adagiarsi, il distendersi.

“Quel paese che siede” è - quindi- quella terra che sta sì, come punto di passaggio e d’incontro tra nord e sud del Paese, tra la Romagna, da sempre area strategica di confine con il settentrione d’Italia, e il paese di Carlo, “quel corno d’Ausonia” (Par. VIII, v. 61) che abbraccia il Meridione; ma è anche quel paese che sta adagiato e disteso, o anche che sta seduto, sia in senso geomorfologico che antropomorfico. Le Marche, dalla montagna alla collina al mare disegnano, infatti, il profilo di una persona seduta o anche adagiata, con la testa in alto tra i monti, lo sguardo rivolto davanti a sé e il corpo rigogliosamente e musicalmente disteso fino “in sul lido adriano” (Par. XXI, v. 123).

Le Marche del tempo di Dante avevano davvero la “testa” tra i monti, con tre delle sue cinque “civitates maiores” situate in montagna: l’Urbino di Bonconte, la Camerino di Francesco, poeta stilnovista, e di ser Berardo, notaio e testimone della sentenza di condanna del fiorentino, fino alla Ascoli Piceno di Cecco; mentre la Fano di Iacopo, già allora avamposto veneziano, ci ricorda che le Marche sono più di altre la regione dell’incontro con l’Adriatico.

Da ultimo, vi è un altro significato del verbo “sedere” in Dante, ed è sempre Iacopo del Cassero ad usarlo in questa accezione quando dice: “...li profondi fori / ond’uscì ‘l sangue in sul qual io sedea” (v. 73-74). Qui ad esser chiamato in causa è lo “stare” della persona umana, il suo ec-sistere, l’unità di corpo e anima, di cui il sangue è ritenuto la sede. Forse, dunque, che quel “sedere” riferito ai luoghi ed eminentemente alle Marche vuol anche dire dell’unità di uomo e natura, di urbs e civitas, che fa del paesaggio la propria anima?

“Difficile trovare altrove una così esatta corrispondenza tra gli animi e il paesaggio”; ci sovvengono le straordinarie pagine di Guido Piovene sulle Marche, dove non è mai citata l’espressione dantesca, seppure appaiano come l’esplicitazione narrativa della potenza di una sintesi poetica. Le parole di Franco Cassano sugli “uomini-est”: “quelli fedeli alle radici, le piante del mondo, quelli che non conoscono la ferita della partenza, che si sentono nel giusto posto dell’universo, che si siedono in silenzio sui loro pensieri, che hanno trovato la perfezione nell’eterno ritorno del cerchio”. Il Leopardi di Tullio Pericoli e l’Italia in una regione.

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