UN NUOVO REGIONALISMO PER “LA POST REGIONE” - di Giancarlo Galeazzi
Il libro di Daniele Salvi “La Post Regione. Le Marche
della doppia ricostruzione” (Il Lavoro Editoriale, Ancona 2020, pp. 220), pur
essendo composto di contributi diversamente occasionati, non è occasionale, in
quanto lo attraversa una costante, cioè la capacità di occuparsi e preoccuparsi
delle Marche come regione con specifiche e nuove peculiarità. Nei vari testi
non viene mai usata la tradizionale categoria di “marchigianità”, eppure
essa è sottesa alla diversificata riflessione dell’autore. Con lui si fa strada
una “postmarchigianità”,
nel senso che il carattere della regione è identificato con una connotazione
non statica, bensì processuale, una dimensione non etnica, ma etica, per cui la
fisionomia delle Marche non è tanto “fatta”, piuttosto è “da farsi”. Così la
proverbiale ritrosia del marchigiano
costituisce non solo un atteggiamento di riservatezza o nascondimento, ma
soprattutto un antidoto alle tentazioni velleitarie o rinunciatarie. Al
riguardo, Salvi suggerisce una interpretazione/provocazione collegata alla sismicità del territorio e nel capitolo
su “Il carattere dei marchigiani. Per un’antropologia del sisma” scrive (a p.
65): “I marchigiani nutrono un segreto amore, mai esplicitato fino a farne una
pedagogia, per il loro passato, ma preferiscono non attaccarvisi, perché sanno
che sarebbe un affetto vano, prima o poi messo a dura prova e fonte di dolore.
Essi prediligono non curarsene più di tanto e tendere a ciò che è funzionale ed
essenziale”. Infatti, “l’essenzialità di quasi tutti gli aspetti della vita
risponde ad un senso di praticità che s’impone quando si vive un’esperienza
come il terremoto”. Mi sembra che, in tal modo, dal libro provenga l’invito ad
andare oltre la “marchigianità” cara a Giovanni Crocioni e Carlo Antognini, per
aprirsi a una “marchigianità” più complessa. La nuova idea di
“postmarchigianità” coniuga insieme la dimensione appenninica e quella
adriatica, ponendole nel contesto mediterraneo, per cui le Marche assumono
una vocazione che trascende la dimensione tradizionalmente loro attribuita e che
le chiude in un ristretto perimetro, oltre che geografico, pure programmatico;
la regione, invece, può e deve respirare più ampiamente, e da tale impostazione
dipende la possibilità della “ricostruzione”, cui le Marche sono oggi chiamate,
di fronte alla triplice “crisi”: economica, sismica e pandemica.
In proposito è importante quanto Salvi scrive
nell’articolo “Camerino e l’Adriatico” dove - a partire dal volume Storia dell’Adriatico di Egidio Ivetic -
si sofferma su quello che Ivetic chiama un “caso di mare regione”,
cui in passato hanno dedicato attenzione studiosi marchigiani diversi come
Sante Graciotti, Sergio Anselmi e Pietro Zampetti. In tal modo la “adriaticità”
assume un duplice significato: si configura in termini identitari per un verso
come uno specifico elemento delle
Marche, l’altro è quello della “appenninicità”, e per altro verso
come contesto complessivo che fa
riferimento alla “mediterraneità” (l’Appennino è la “montagna del Mediterraneo”).
Occorre peraltro precisare che, “se il Mediterraneo è il mare della diversità,
l’Adriatico nonostante i confini e gli scontri, è il mare delle convergenze”,
“un’area di mediazione delle diversità”, sostiene Ivetic, citato da Salvi (p.
184), il quale conclude, sostenendo una inedita consapevolezza, quella di
“sentirsi, dunque, parte della ‘cultura adriatica’ e coltivare un ‘pensiero
adriatico come pensiero di confine’ frutto di un insieme di culture di
periferia, al margine di qualcosa, ma autonomo, perché vocato alla ricerca
inesauribile della sintesi delle pluralità”(p. 189). Si tratta di una
consapevolezza che deve estendersi dalle città che si affacciano sull’Adriatico
(p.e. Pesaro-Fano) a quelle situate nell’Appennino (p.e. Camerino). Ed è
consapevolezza che recentemente ha trovato espressione proprio con
l’istituzione della Macroregione Adriatico Jonica.
La
questione marchigiana, quindi, viene affrontata in questo orizzonte, che nulla
toglie alla pluralità tipica della regione, ma consente di coglierla in modo
unitario, permettendo al suo policentrismo di non essere né dispersivo né
confliggente. Così l’autore propone una visione che è feconda in quanto produce
un ritratto vivo delle Marche, disegnato a volte in ottica complessiva e altre
volte in prospettiva particolare, sempre però all’insegna di una attualità non
effimera, bensì vitale, in quanto risale da specifiche congiunture a più
generali strutture tipiche della regione. Questa osmosi fra congiunturale e strutturale
ci sembra l’esito più riuscito del libro, quello che lo caratterizza in modo originale.
Sotto questo profilo sono emblematiche le pagine dedicate per un verso a
Camerino - “caso di studio” (p. 79) e “città territorio” (p. 80) - e per altro
verso all’ente Regione con i suoi 50 anni di vita, considerati in sé e nei suoi
rapporti con le regioni confinanti o vicine.
Si legga al riguardo il capitolo “Se cinquanta vi
sembran pochi” per il cinquantesimo della istituzione dell’ente Regione, e “Una
politica per le città delle Marche”, che Salvi identifica con la necessità di
“pensare una politica per le città, inclusa quella città appenninica da cui dipende il futuro di uno sviluppo
regionale che non si esaurisca nella linearità insediativa della città adriatica” (pp. 91-92). Pertanto,
“la sfida è quella di provare a disegnare una geocomunità che riparta
dai ‘luoghi’, da quella integrazione tra smart
city e smart land che non può che
essere la risposta europea in chiave di sviluppo sostenibile al procedere verso
megalopoli che potrebbero essere più del ‘terrore’ che del benessere” (p. 92).
Che cosa produce l’operare su questo duplice binario? L’esigenza di un “nuovo
regionalismo”, che l’autore chiama “Post Regione”,
espressione posta a titolo del libro, che non meno significativamente è
sottotitolato “Le Marche della doppia ricostruzione”: sismica e pandemica.
Senza entrare nel merito di tutte le questioni
trattate, ci limitiamo ad accennare alla metodologia con cui vengono
affrontate, perché ci sembra, questo, un aspetto particolarmente interessante
del libro. C’è nel discorso una precisa concretezza,
che non è disgiunta da altrettanta competenza,
così che la conoscenza dei problemi
diventa stimolo a partecipare alla riflessione che l’autore sviluppa in proprio
o alla luce di opere recenti e di studiosi qualificati. Le “tre C” della metodologia adottata
costituiscono una indicazione preziosa, in quanto non è frequente trovare i tre
aspetti uniti; eppure uniti devono stare, altrimenti la conoscenza rischia
l’astrattezza, la concretezza rischia il pragmatismo e la competenza rischia lo
specialismo. Allora, si potrebbe dire che l’indicazione metodologica praticata
da Salvi, se applicata alla “questione marchigiana”, induce a
dire che per lo sviluppo delle Marche è essenziale puntare a “fare delle Marche
un vero e proprio sistema plurale”, nel senso che le Marche devono passare dal
plurale fattuale al plurale sistemico; ciò significa portare alla luce
le componenti costitutive delle Marche non per produrre una somma, bensì un
prodotto. Occorre, quindi, (p. 92) “immaginare una ‘rete delle città’
marchigiane che incorpori una visione sistemica, specializzazioni funzionali
diversificate e integrazioni complementari, anche rispetto ai nuovi motori di
sviluppo e alla qualificazione del welfare
regionale”.
Per concludere, vogliamo dire che il libro
sa tenere insieme cultura e politica, mostrando l’inscindibilità del binomio. Da
questo punto di vista, si potrebbero fare molte citazioni che permettono di
capire lo spirito informatore del libro e la personalità dell’autore. Con specifico riferimento alle Marche, ci
limitiamo a tre annotazioni che sintetizzano la riflessione complessiva: “Affinché
il ‘deserto sovraffollato’ della modernità liquida transiti verso nuove
solidità che abbiano un volto democratico bisognerà che cultura, politica e amministrazione provino a darsi la mano. Nelle
città e nei luoghi delle Marche, volendolo, è ancora possibile” (p. 156);
“Riemerge, di fronte alla complessa transizione in atto, l’esigenza di una visione più ampia, più piena, più
consapevole, potremmo dire ‘umanistica’,
capace di interpretare il mondo che ci circonda e di ispirare nuovamente
l’economia e la regolazione della società” (p. 101); “Le formule politiche sono
figlie del proprio tempo e se ne vanno”, mentre resta “quel bisogno di una politica, seria, leggibile, espressione
di mondi reali, nutrita di un pensiero che vada oltre l’oggi” (p. 25). Non
si può che condividere.
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