Così stava scritto. A mano, con gessetto bianco, su un portone di legno grigio scuro usurato dal tempo. In modo incerto e precario, ma intoccabile. Resistette fino alla chiusura della fabbrica, non alla sua trasformazione in una officina meccanica. In terra marchigiana, al tradizionale saluto augurale francescano, PACE E BENE, si era aggiunta un’altra E, seguita dalla parola LAVORO. Niente di più naturale. Non vi era un’insegna della fabbrica, né qualcosa che dava un’immediata riconoscibilità a quel che lì si faceva, a parte il forte rumore. Soltanto quella scritta, che accoglieva chi varcava il portone oppure, quando era chiuso, salutava il passante. Vi sarebbero state ancor meglio vergate le parole iniziali del Canto III de L’Inferno dantesco: “Per me si va ne la città dolente, / Per me si va ne l’etterno dolore, / Per me si va tra la perduta gente” (v. 1-3). Era questa la sensazione più prossima a quello che poteva provare un ragazzino che si fosse avvicinato a quell’entr...